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Pesca Nel Basurero


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Agosto 2003

Pesca nel “basurero”

Era un po’ che sentivo raccontare da Pancho ed Elivardo, i miei due compagni di pesca nella Bahia de Nipe, di un sistema di pesca che usano a Moa: un tale che essi conoscevano, di nome Miguelin, disponeva di un barcone di legno di 12 metri, alimentato a gasolio, che lo Stato gli aveva affidato per lavori subacquei vari nei porti, ma che lui usava per andare a pescare ogni volta che non era impegnato.
In tutta Cuba, ogni volta che ritorno, trovo che ci sia sempre meno pesce di prima, ma a Moa questo fenomeno è cominciato da un pezzo e adesso tuffandosi in quelle acque si stenta a credere di trovarsi in un mare tropicale. Il pesce sul mercato locale ha già raggiunto i prezzi dell'Habana e adesso una delle nuove attività più redditizie è quella di andare a cercare il pesce da comprare presso le comunità più isolate di pescatori, per poi rivenderselo a prezzo maggiorato in tutta la provincia di Holguin. E’ per questo che tanti acquirenti affollano, da qualche anno a questa parte, Corinthia, Guatemala e le spiagge che io frequento; il pesce sta ovviamente esaurendosi anche lì, dove posso accorgermene personalmente, ma quelli di Moa sono assatanati: quando arrivano coi fucili da queste parti sparano a tutto quello che si muove senza ritegno, anche a pescetti di 2 o 3 etti che, se lasciati crescere, raggiungerebbero i 40 kgs e tutto in barba alle limitazioni imposte, ma non fatte rispettare, dalla legge e contro i loro stessi interessi.
Il sistema che ha trovato Miguelin, invece, è tanto originale quanto esclusivo. Lui non pesca sottocosta, dove non si trovano più neanche i ricci, ma al largo, anche oltre il limite delle acque territoriali, almeno a dieci miglia da terra, lungo le correnti del Bahamas channel. Non c’è un punto preciso da individuare grazie a delle coordinate, perché il luogo si sposta a seconda delle correnti: è il basurero.
Basura è immondizia, in spagnolo, quindi: immondezzaio.
Per qualche ragione dovuta ai capricci che crea la corrente uscente dal canale, la stessa che poi si chiamerà del Golfo, vi è un punto nel mare in cui confluiscono flottando relitti e rifiuti di ogni genere: sargassi, buste di plastica, bidoni, copertoni e tutto quanto riesce a stare a galla, magari per anni.
In questo posto la corrente rallenta e si ferma, o prende un andamento circolare, dopo aver radunato in una lunghissima colonna tutta la immondizia trasportata dal canale. La colonna ha una larghezza variabile da un paio di metri ad oltre cento, e dall’alto si snoda come un serpente biancastro anche per alcuni chilometri. Questo punto è all'incirca davanti alla costa di Moa ed occorre almeno un'ora per coprire la distanza, e spesso un'altra per localizzarlo: le barche non potrebbero spingersi tanto lontano, la Capitania svolge buona guardia contro l’emigrazione illegale, ma Miguelin è ammanicato col partito e, come Elivardo a Cayo Saetìa, ripaga con il pesce le attenzioni concesse.
Nel basurero si può trovare di tutto, compresi i grandi pelagici dei Caraibi che, sia per la loro stazza sia per il fatto di non aver mai visto pescatori subacquei, si comportano ignorandoli e lasciandosi avvicinare, senza fuggire a 90 all'ora come accadrebbe sottocosta.
Compaiono dorados, tonni, coronados, mante, pesci vela e perfino i casteros hemingwayani. Purtroppo anche squali.
Il pesce che incrocia nella corrente, quando incappa nel basurero spesso ci si sofferma al riparo. Uno tirando l’altro, gli altri predatori si aggiungono mano a mano seguendo la piramide alimentare.
Si pesca con la testa rivolta in basso, a trainetta, restando attaccati con una mano alla cima che pende dalla barca, che costeggia al minimo la scia di immondizia: quando si vede qualcosa si avvisa il pilota, che si ferma ad aspettare, ci si molla e ci si tuffa puntando la preda senza mai scendere sotto i 10 metri.
L’asta del fucile è collegata con una sagola a bordo dell’imbarcazione, mai al fucile stesso, dato che si tira ad animali dotati di una forza spaventosa in grado di trainare perfino la barca. Tutta l’attrezzatura è maggiorata e potenziata, quasi si trattasse di tirare alle balene: aste di 10 mm in nickel con punta tahitiana ed alette lunghissime; cursori di alluminio e sagole intrecciate di 4-5 mm di diametro. Cannoni, non fucili. Prodotti artigianalmente made in Cuba da chi possiede un tornio, copiando a lunghe linee quelli della serie Sten.
Ma poi ho capito il perché.
Stavo lì già da due mesi e ormai s'avvicinava il giorno della partenza. Insistetti con loro perché mi portassero da Miguelin e alla fine ci mettemmo d’accordo. I problemi, per loro, erano i soliti che la mia presenza comportava: ero straniero, non pagavo mai le esosissime tasse di pesca in dollari richieste dall'Inmigracion, se avessi aperto bocca o m'avessero riconosciuto lo avrebbero subito saputo tutti fino a giungere alle orecchie delle tre guardie di Mayarì e via dicendo…In caso qualcosa fosse andato storto, per loro sarebbero stati anni di galera, non multe e basta, a me m'avrebbero come minimo ritirato il passaporto fino al giorno in cui avessi pagato una supermulta di 1500 dollari; ma erano miei amici ed anche a loro andava di farsi una pescata a Moa, dove raramente avevano occasione di andare; io avevo una macchina, quindi alla fine si decisero, chiamarono il loro collega e stabilimmo di vederci il lunedì successivo.
Partimmo col mio Dodge Plymouth del '54, che tengo a casa dei suoceri per i periodi di vacanza, alle 6 di mattina da Felton, per i 90 km di percorso che ci separavano da quella città: qui sembra niente, ma laggiù questo è un viaggio rischioso e pieno d'incognite; se ci riuscivamo avevamo intenzione di tornare la sera, ma a Cuba è meglio non fare mai programmi precisi, per cui mi ero portato anche la tenda, per prudenza.
La strada si stava illuminando con la luce dell’alba, ma era già trafficata da guaguas, automobili sgangherate peggio della mia e carretti traboccanti di lavoratori per le loro destinazioni.
Fino a Corinthia la conoscevo bene, ma poi diveniva tutto ignoto: mai mi ero spinto più ad est di questa località, già arretrata di suo nel panorama nazionale e persa nel profondo oriente cubano, pressochè sconosciuto al turismo internazionale, con infrastrutture nulle ma che lo rendono ancora vergine. Qui la gente quando scopre un turista ancora si volta a guardarlo, ed era proprio quello che volevo evitare: per cui, mi ero camuffato vestendomi come loro. short, scarpe da tennis e maglietta anonima. Stop. L'orologio era messo in tasca, perchè qui chi ce l'ha c'ha i soldi.
La strada cominciò a peggiorare subito dopo Cayo Mambì: erano finiti i bei rettilinei di prima ed ora era un susseguirsi di curve, salite e discese dal fondo sempre più sconnesso. Il municipio di Frank Pais, in cui eravamo entrati, è uno dei più poveri dell’Oriente isolano e si vedeva.
Era troppo presto per comprare da mangiare qualcosa per strada: i venditori non erano ancora usciti fuori dai loro bohios, ma avevo un buco allo stomaco, perché da quando ero sveglio non avevo mandato giù nulla, perché nulla c’era da mangiare, come al solito, a casa mia. E qui gli autogrill non esistono.
Pancho, allora, tirò fuori delle gallettacce dure come il ferro che tuttavia mi sembrarono una manna dal cielo. La strada era divenuta un alternarsi di salite e discese, ma le curve erano ancora abbastanza larghe. Il Dodge non stava messo male a motore, era tutto il resto che era fatiscente: soprattutto le gomme, ridotte a caciotte da cui traspariva la trama d'acciaio, che non apparivano in nessun tipo di mercato, manco clandestino, erano quelle che mi preoccupavano di più.
Non facemmo brutte esperienze, e da lontano apparve una nuvola di smog da ciminiere a preannunciare la vicinanza di Moa, città dotata di ben tre fabbriche per la lavorazione del nickel, quindi piuttosto ricca. Le migliori macchine modificate diesel di tutta Cuba vengono da qui. Gli autisti di Moa sono quelli che assicurano in pratica il trasporto nella regione, privatamente. Lo stato qui latita come da noi nella Locride.
Scendemmo a cercare Miguelin e la sua barca al porto e alla fine lo trovammo nel braccio di un canale che si perdeva nell’entroterra. La barca era una via di mezzo tra un peschereccio e una lancia pilota, un 12 metri, ed era sudicia e sembrava conciata male. Erano anni che non la riverniciavano e il legno, tornato grezzo, era scuro per l’acqua, il grasso e il gasolio di cui era impregnato. Appesi a delle clips sulle pareti esterne della cabina di pilotaggio spiccavano due arpioni da baleniere lucidi e ben tenuti, dalle alette pesanti qualche etto.
Miguelin ci accolse mezzo sorridente a bordo mentre stava arrotolando delle sagole: era un bianco grassoccio, parzialmente pelato e con due baffoni folti e dimostrava una quarantina d’anni. Sembrava un turco o un greco; chiese subito se ero io l’italiano e al mio sì fece ridendo:
- Mafia, qui non stiamo nel Mediterraneo: per cui, oggi, non ti cagare sotto!- lasciandomi un po’ perplesso, mentre gli altri due s'univano sghignazzando.
–Ma tu che ne sai del Mediterraneo, compay?- gli ribattei sarcastico.
–Sono stato in Spagna, quando ero marinaio.- mi rispose senza rivalsa.
Dopo aver confabulato un quarto d’ora, discutendo sui problemi con la Capitania nel caso ci avessero sorpreso con me a bordo, il motore si accese tra grandi sbuffi di fumo e, finchè non si completò la manovra, ci asfissiò a modino. Poi, staccati gli ormeggi, ci avviammo alla volta della bocca del canale.
La barca aveva una ripresa insospettata che mi fece perdere l’equilibrio e finire su una coffa avvolta dentro ad un secchione ovale, armata con ami da squali. Ero incazzatissimo per la figura da impedito che stavo facendo dopo aver passato lustri per mare, ma sembrava che nessuno mi avesse notato e mi rialzai. Poi, mi venne pure il dubbio che Miguelin l’avesse fatto apposta.
Non c'era stata simpatia iniziale, questo era poco ma sicuro.
Dentro alla cabina di pilotaggio si apriva un boccaporto che conduceva al loculo per dormire, dove ai due lati vi erano delle cuccette estremamente spartane costituite praticamente dal solo tavolato con una specie di cuscino zelloso. In un altro angolo, all’oscuro, dato che non si apriva nemmeno un oblò all’interno, vi era una sorta di angolo cottura, con la bombola del fogon a petrolio e la sua serpentina. La puzza che questo posto emanava era una via di mezzo tra una fogna aperta e una cisterna di nafta, con richiami di topo morto da 5 giorni.
Non c'era bagno ma, per cacare, una plancetta a poppa dove ci si sporgeva col culo sulla scia e, per lavarsi un tubo che, emergendo da sotto il paiolato, aspirava l’acqua marina per mezzo di una pompa e serviva soprattutto per sciacquare il ponte dal sangue alla fine della pesca.
A poppa non c'era verricello, ma un vero e proprio paranco semiarrugginito e coperto di grasso, con la manovella per alare ed il gancio che passava in un bozzello. Il resto della barca era ordinato anche se consunto e sporco, a prua l’ancora ammiragliato era tenuta ferma da cordini sfilacciati resi bianchi dal sole e, dato il numero delle cacate d'uccello, sembrava non essere stata più calata da anni.
Uscimmo dal canale e Miguelin puntò sul mare aperto. Gli chiesi come sapesse individuare il basurero, ma disse che non lo sapeva e si fidava dell'esperienza. - Se abbiamo culo vedremo gli uccelli, e se no lo troveremo lo stesso.-
Detto ciò, manifestando un certo buon umore, prese a raccontare di quando, con dei suoi soci, avevano incontrato un branco di globicefali lungo il tragitto e ne avevano arpionato uno, sullo stile dei balenieri di Moby Dick: spruzzi di sangue che lavavano la barca, il paranco che quasi si spezza per tirarlo su, il casino per macellare l'animale clandestinamente fuori della costa di notte. Gli altri lo ascoltavano con enorme interesse e grande invidia. A me non faceva più effetto sentire storie simili, anzi: capivo che catturare una bestia simile da queste parti, può farti risolverti sei mesi di lavoro normale. Mentre Miguelin faceva girare una bottiglia del solito rum di quartiere, chiese se qualcuno volesse del caffè.
Il caffè però era ancora da fare, allora Elivardo scese sottocoperta ad armeggiare nel cucinino, tra taniche d’acqua e colini. Quando riemerse aveva gli occhi fuori dalle orbite e la faccia di chi sta per vomitare l’anima e passarono diversi secondi prima che potesse parlare. Allora disse:- Miguelin, por tu madre, il caffè d’ora in poi o lo fai tu o ce lo fai trovare già pronto!-, mentre quei due se la ridevano sguaiatamente, prendendolo per il culo per le sue doti marinaresche.
Miguelin si mise a raccontare di com’era andata l’ultima volta in cui era andato al basurero: sicuramente ci caricava sopra un cumulo di cazzate, ma dopotutto ero sempre più convinto che questo posto e questo sistema di pesca rendessero veramente. Per quanto gli piacesse assai la chiacchiera, si capiva che Miguelin non era uno s*****o: bastava guardarsi in giro nella barca per trovare arnesi e attrrezzature destinate a pesci che nessuno di noi aveva mai sognato di prendere e, se questi oggi erano a bordo, ciò poteva solo significare che avremmo probabilmente avuto occasione di usarli molto presto. C’erano dei raffi da tonni, sotto al quadrato di poppa, come quelli che ancora si usano nelle mattanze di Favignana: la situazione era eccitante e mi accorsi che tutti ne erano contagiati. Pancho e Elivardo, ma sicuramente anch'io, erano divenuti loquaci e scherzosi come a pesca ancora non li avevo mai visti e, per prolungare questa sensazione, ci davano dentro col rum, che terminò in meno di 20 minuti.
Passammo alla seconda bottiglia.
Miguelin, gesticolando molto, raccontava ancora, urlando nel frastuono, storie di pesca che dovevano riguardare lui con degli amici comuni, perché gli altri due gli facevano domande citando il nome di questo o di quello, ridendo e poi facendosi
improvvisamente seri e attenti.
Mentre stavo inumidendo la muta con il tubo del ponte udii gridare Pancho a prua, in piedi sull’ancora con una mano sulla strallo del piccolo bompresso e mi girai: avevano scoperto il basurero, era a meno di 500 metri; la barca, che si chiamava semplicemente Baracoa (nome dell'unica località conosciuta internazionalmente in tutta la provincia di Moa), rallentò e piegò un po’ a sinistra e Miguelin si girò verso di noi dicendo:-Ancora così? Preparatevi!-
Il Baracoa perse velocità fino a fermarsi nella corrente iniziando un lento beccheggio: stavamo a circa 30 metri dalle prime buste di plastica che si vedevano fluttuare, mi sporsi issandomi sulla falchetta a dare un’occhiata e appena in alto mi resi conto che era una scia sterminata. Vi erano migliaia di sacchetti di plastica, frammisti a sargassi e a meduse, pezzi di legno, recipienti in pvc semiaffondati coperti di concrezioni e denti di cane, pneumatici anche con il cerchione, una minutaglia di pezzi di polistirolo, tappi, plastiche varie e galleggianti da rete in cui spiccavano insidiosissime bombole del gas. Capii che qui si concentrava tutta l’immondizia dell’intero Golfo del Messico e che non poteva essere solo cubana: qui i copertoni, e perfino le taniche di pvc, nessuno si sarebbe sognato di buttarli a mare.
Degli uccelli marini simili ad anatre si erano posati ai lati della scia e si allontanavano da noi nuotando. In lontananza si intravedeva una mangianza di gabbiani e pellicani in picchiata su banchi di piccoli pesci spinti in alto dai predatori. Le onde erano effettivamente alte, ma lunghissime e regolari. Ondate atlantiche con salite e discese interminabili, su cui speravo che l’aliseo imminente non caricasse troppo il mare, tra non molto.
Ci sbrigammo a vestirci anche perché il rollio cominciava a dare fastidio e la brezza a tratti ci buttava in faccia la puzza di gasolio dello scappamento, che fuoriusciva maldestramente dal tetto della cabina; Miguelin preparò le cime a cui ci saremmo aggrappati per trainarci e le lanciò fuori bordo, quindi armò tre bidoncini nerastri vuoti da 25 litri con delle grandi girelle fatte in casa e i preziosi moschettoni: le sagole dei nostri fucili non erano avvolte sulla canna, ma nuotavano sciolte per una ventina di metri per poi collegarsi direttamente ai tre galleggianti. La scena aveva molte analogie con quella della barca del film –Lo squalo- di Spielberg. Manco a dirlo, quei tre bidoncini Miguelin li aveva trovati in ottime condizioni dentro al basurero, e li aveva ridipinti di nero allo scopo.
Poco lontano da noi scorgemmo all’improvviso una serie di spruzzi disordinati, poi si intravide nella schiuma una pinna enorme che zigzagava e si inabissò: un pesce vela!!
-Che c@**o di velocità, ragazzi!- esclamai ad occhi sgranati. Già era ritornata la calma nel tratto di mare, a parte la lieve ondatina circolare che si allargava verso di noi. Elivardo, che non si era scomposto, mi fece:- Li avevi già visti?-
-Sì, una volta a bordo del catamarano di mio fratello- risposi- Ma a te ti sono mai capitati?- aggiunsi subito.
-Sì, una volta.-
-Gli hai tirato?-
-Guarda, se ti succede, vattene. Monta in barca. Tanto resta attaccato alla boa.- sentenziò, girandosi perché gli abbassassi la muta dalle spalle.
Pancho si stava calando dalla plancetta di poppa col suo pesantissimo fucile in nickel e dalla canna in titanio.
-Dai, buttatevi!- esclamò Miguelin ai comandi, dando una sgassata pestilenziale- Il basurero si allontana!-.
Mi tuffai nell’acqua fresca e non appena si dissipò la coltre di bolle mi ritrovai sospeso in un inquietante blu cupo: sotto di me c’erano 4 chilometri d’acqua. Era trasparentissima e le buste in sospensione in lontananza apparivano più grandi e irreali come fantasmi. Non stavano solo a galla ma a tutte le profondità, mischiate a milioni di meduse di tutte le forme e colori e altri organismi lattiginosi e inerti in balia della corrente. Di primo acchitto non vidi pesci, ma poi ne scoprii qualcuno piccolo a galla, intorno ai copertoni e le buste più grandi: erano piccole cojinuas azzurre uguali a quelle che colonizzavano i dintorni di Corinthia e mi stupii della versatilità di questi pesciolini, a loro agio sia in pochi centimetri d’acqua che nell’oceano.
Uno strattone mi riportò alla realtà: il Baracoa aveva iniziato a trascinarci e i nostri tre corpi furono riuniti nella scia dalle tre cime. Cercavo di trovare una posizione che non mi stancasse il braccio sinistro, quello con cui mi tenevo, perché la spinta della barca era lenta ma potente e il laccio in cui tenevo la mano me la stringeva dolorosamente nonostante il guanto di pelle. Io ero quello al centro, con Elivardo a destra, e anche il basurero era a destra; la barca spostava fortunatamente al suo passaggio la maggior parte delle meduse e degli ostacoli, ma bisognava lo stesso fare attenzione a quello che ti arrivava in faccia e, di rimando, mi stirai sulle guance e sulla fronte il cappuccio della muta per ripararmi. L’elica a tre pale di bronzo sembrava girare tanto piano da riuscire a seguire con gli occhi il movimento di ciascuna pala e non provocava quasi bolle: automaticamente disponemmo i lunghi e pesanti fucili in senso idrodinamico paralleli al corpo.
Non si vedeva niente.
Poi sentii Pancho muggire sott’acqua attraverso la maschera per richiamare la nostra attenzione. Lui era quello più esterno al basurero, lì dove non mi ero mai voltato a guardare fino a quel momento e quando mi girai allarmato, vidi scorrere a non più di dieci metri da noi un gruppetto di petos, maccarelli giganti pantropicali, in inglese wahoos, di peso tra i 10 e i 40 kgs…. Uno spettacolo incredibile. Il loro nuoto di crociera era troppo veloce e si portarono lontano prima ancora che Pancho li avvicinasse: Pancho non si era fermato a guardarli a bocca aperta come noi e si era immerso immediatamente cercando di tagliargli la strada, ma neanche lui li raggiunse. Ci avevano ignorato tranquillamente, senza deviare e nemmeno accennare a rallentare per la curiosità: nonostante tutto era un buon segno.
Sentivo montare l’adrenalina della caccia: questi sì che erano purosangue d’alto mare! Bestioni capaci di darti filo da torcere come i tonni; li conosce bene chi pesca nel Big Game…c@**o, i famosi wahoos!… I pesci di cui avevo sentito parlare in Kenya nel ’75, quando papà volle portarci a pesca d’altura a Mombasa e invece, poi, ci colse a tutti il mal di mare e rientrammo subito… Chi poteva pensare che un giorno gli sarei giunto quasi a tiro?
Miguelin si era fermato per capire che succedeva e, quando Pancho gli riferì brevemente dell’incontro, lui ridiede gas. Ma un'enorme e spesso sacco di plastica nero per prodotti industriali si era aggrovigliato intorno all’elica non appena la barca aveva rallentato e Miguelin non se ne accorse nonostante le nostre grida, continuando a farlo stringere attorno all’elica finchè non si arrestò.
Dopo che Miguelin s'affacciò, dal ponte piovvero bestemmie alla "Maremma style".
Con il coltello Elivardo si mise a liberare le pale affettando la busta in un turbine di pezzi di plastica nera: si era formata una palla di plastica dura come il legno e si prospettava una bella faticaccia. Inoltre, l’aliseo si stava alzando e faceva derivare il Baracoa lontano dalla scia di immondizia.
Miguelin, piuttosto preoccupato, ci chiese quanto mancava.
Era un lavoro del c@**o fare quell’operazione in apnea ora che la barca, senza propulsione, rollava più forte, ed ero contento che non fosse toccato a me: il coltello lo portava solo Elivardo.
Restavo attaccato alla cima ponendomi sul lato sottovento e fu in quel momento che vidi arrivare un branco di cobias.
Sono pesci pelagici dalla livrea a strisce, bianchi con una doppia banda grigia longitudinale, che sfuma nel giallo e nel marroncino. Il branco stava risalendo dalle profondità attratto dalla curiosa sagoma della barca in superficie e li vidi puntarci con andatura sostenuta. Per la grande trasparenza del mare non ne deducevo le dimensioni, ma presto intuii che erano come quelle dei wahoos e di colpo ebbi la sensazione che mi sarebbero arrivate a tiro, sentendo tornare l’eccitazione di prima. Non girai la testa per vedere se gli altri se ne fossero accorti o avvertirli e avevo timore di distogliere lo sguardo dai pesci ora che si avvicinavano rapidamente: misi in stand-by l’eccitazione e sentii calare la freddezza che cercavo, tentando di tenermi immobile all’ombra della barca fino al momento in cui si sarebbero trovati alla distanza giusta per puntare il cannone. Erano sette cobias e, come spesso succede quando i pesci sono curiosi, gli esemplari più giovani si erano portati in testa al gruppo, mentre i più grossi restavano indietro. E indietro ce n’era una che faceva più di 40 kgs: quella che doveva morire.
Mi raccolsi puntando i piedi sulla chiglia e mi spinsi incontro alle prime tre uscendo dall’ombra del Baracoa; tra i raggi accecanti e ancora obliqui di un giorno di sole nell’Atlantico tropicale, il fucile artigianale mandò un riflesso e le prime cobias accelerarono la loro puntata. Presero a carosellarmi intorno in meno di 6 metri di profondità in un tripudio di curiosità mista ad allarme: erano velocissime e avrei dovuto aspettare che si allineassero da sole davanti al mirino perché non avrei mai potuto brandeggiare tanto rapidamente quel cannone, ma in realtà aspettavo la più grossa delle sette, quella più lontana e maestosa, che non si decideva ad accorciare le distanze anche se in parte contagiata dalla frenesia generale. A pesci così dovevo per forza tirare dalla minore distanza possibile per avere qualche speranza di trattenerli.
Alle mie spalle udii uno schiocco secco e mi voltai: Pancho era sceso e aveva tirato ad una delle più piccole, che ora si stava dibattendo forsennatamente dirigendosi verso il basso....
Ora tutto era degenerato.
Era stato molto più pragmatico di me, ma non avrei risolto niente ad incazzarmi adesso, bisognava tirare subito, prima che il branco si disperdesse, anzi, era già strano che non l’avesse ancora fatto; altra dimostrazione della natura non maliziosa di questi pesci di mare aperto.
Le cobias restavano a turbinare sconcertate tra me e la compagna ferita che si allontanava scompostamente trainandosi la botticella: io ero rimasto immobile fino a quel momento, sospeso tra di loro a mezz’acqua, ma ora mi slanciai in avanti con una sforbiciata a fucile teso, verso la prima che mi si trovava di fronte e aspettai che mi scorresse sotto per tirargli dall’alto al centro della groppa, da circa 4 metri. La pesante asta si piantò con un tonfo secco sopra all’attaccatura della pinna dorsale e, grazie al cielo, sboccò dall’altra parte, nella pancia, e le alette si aprirono bene.
Uno scatto sincronizzato delle superstiti aveva accompagnato il rumore dello sparo e la prima a riprendersi fu la cobia più grande, che rendendosi conto della situazione guidò il branchetto lontano da lì a velocità sostenuta: quella colpita rimase a nuotare in circolo con difficoltà perchè l’asta piantata al centro la impediva notevolmente; quella di Pancho non si vedeva più.
Tornai alla barca, che aveva derivato ancora un bel po’, e montai sulla plancetta dove Pancho mi aveva preceduto: Miguelin gli si stava rivolgendo concitatamente per farlo sbrigare a salire ed aiutarlo ad alare il primo pesce, che si era trascinato via sagola e barilotto, mentre lui aveva agguantato la mia cima e stava combattendo con la resistenza all’acqua che opponeva la mia cobia colpita da sopra.
Elivardo stava ancora terminando di spicciare la busta dall’elica e finchè non fosse stato a bordo non si poteva inseguire l’altro pesce: c'era il rischio che arrivasse qualche squalo a sbafarselo prima che potessimo intervenire e non era certo il caso di inseguirlo a nuoto.
Alla fine Elivardo terminò e, con un salto imprevedibile per la sua stazza cilindrica, si ritrovò seduto sulla plancetta, mentre noi tre avevamo finito di issare il pesce aiutandoci con un raffio di due metri. Subito Miguelin diede gas con un balzo e puntò verso il bidoncino scuro che si trovava già a cento metri dalla barca, confuso nel mezzo del basurero. Era molto preoccupato e continuava a mormorare che ci avremmo senz’altro trovato lo squalo attaccato. Io approfittai della pausa per rimproverare Pancho della sua fretta del c@**o: se avessimo coordinato l’attacco la cobia più grossa adesso starebbe a bordo, ma lui alzando le spalle mi rimandò:
-Beh, invece adesso ne abbiamo prese due. Non è meglio?-
Era inutile farglielo capire: loro pescano per la quantità, se ne fregano dei records.
Il bidoncino si spostava lentamente e la barca rallentò mettendosi al suo lato con Elivardo che si sporgeva col raffio cercando di afferrare la sagola.
-Forza, acchiappalo prima che ci si avvolga qualche altra schifezza nell’elica!- lo incitava Miguelin ai comandi. Finalmente il gancio incontrò la cimetta e la barca si fermò a motore acceso e tutti iniziammo a tirare: la cobia era ancora attaccata e, sentendosi issare dolorosamente, riprese vita e menò delle codate pesanti. Cedemmo la sagola per evitare che si lacerasse. Ma il pesce si stancò presto per la perdita di sangue subita e venne su quasi a sacco.
-Facciamo piano! Attenzione che non si sa in che condizioni stia!- gli dicevo. Io non potevo sporgermi sul lato della sagola perché stavo al centro del ponte, ma mi girai sull’altro versante e vidi con stupore venir su la macchia bianca della cobia da quella parte. C’era qualcosa che non quadrava e di colpo mi resi conto:
-c@**o! Attenti che la cima si va a mettere dentro alle paleee!!!-
Miguelin si rialzò con un’espressione strana e sorpresa; mollò la sagola e corse a vedere, poi comandò a Pancho di riprendere il raffio dalle clips della cabina e con questo cercò di raggiungere la sagola da quel lato, ma senza riuscirci e per poco non cadde in acqua.
Il pesce continuava a stazionare senza più tirare a 3 o 4 metri di profondità: la sagola non si capiva che giro avesse fatto ma non veniva più su bene, e doveva essersi attaccata da qualche parte tra il timone e l’elica. In questa situazione rimaneva solo da ributtarsi a mare e risolvere il problema.
Ci andammo io ed Elivardo, con un fucile per sicurezza: la cobia nuotava debolmente, trattenuta dall’asta che le aveva provocato un notevole squarcio nelle carni, che arrivava alla pancia. Presto si sarebbe liberata, e magari alla prossima codata. Intorno si vedevano passare frotte di pesci incuriositi.
Pancho l’aveva colpita al centro del corpo, poco dietro alle branchie, la cobia era fuggita verso il fondo finchè non era stata trattenuta dal galleggiante e, a questo punto s’era girata a pancia in alto, scodando disperatamente e allargandosi la ferita verso le parti più tenere.
Elivardo non ci pensò su tanto: mi prese il fucile e si immerse con una capovolta e tirò al pesce di nuovo, ma stavolta nella testa. Così doppiata, si dedicò allora allo sbroglio della sagola, che in verità venne via subito da sotto al cavo tra elica e timone e Miguelin ributtò a mare la prima tanichetta per permettergli di girare attorno alla poppa.
Tornammo a bordo mentre finalmente il pesce veniva rovesciato esangue sul paiolato e si riaccendeva il motore per spostarci più avanti. Tra tutte e due pesavano una settantina di libbre.
Avevamo perso un sacco di tempo: il vento s’era continuato a levare e il mare di conseguenza e sarebbe stato difficile continuare a seguire il basurero a bassa velocità. Tuttavia nessuno aveva voglia di smettere, anzi eravamo ancora più gasati.
Percorso un sei-settecento metri e dopo un paio di sorsi di rum a testa, scendemmo ancora in acqua tra le onde più corte. Stavolta appena abbassammo la testa scorgemmo subito una frotta di dorados attorno alla barca: probabilmente ne stavano seguendo la scia da un pezzo, perché sono attratti dalla turbolenza dell’elica.
Gli tirammo abbastanza male per la sorpresa: Elivardo prese il suo, Pancho lo mancò e il mio si staccò per averlo spizzato sulla gobba. Questo c@**o di fucile era un disastro per i tiri in orizzontale: avrebbero dovuto metterci un galleggiante in punta, era troppo pesante.
Il resto del branco in un baleno si volatilizzò, ma quello di Elivardo era a dir poco superbo e pesava quanto la cobia grande. A bordo, Miguelin lo prese a mazzate in testa e, nel giro di 3 minuti, il suo colore giallo oro si mutò in un grigio argento punteggiato di macchioline gialle e azzurre.
Miguelin a bordo smadonnava per la sfiga, e ci disse che se continuavamo così non rientrava nemmeno delle spese.
Ci riattaccammo alle cime e ci facemmo trascinare per un bel pezzo incontrando solo branchi di aguglie di 3-4 kgs che correvano poco sotto la superficie. Era impossibile tirargli perché sono un bersaglio strettissimo e veloce e non ne valeva nemmeno la pena, però costituivano una preda ricercata dai grandi pesci pelagici e la loro presenza era promettente.
A Elivardo finì una medusa in faccia e dovette rientrare a bordo: non aveva il cappuccio nella sua muta e, oltretutto, ha meno capelli di me. Gli si gonfiò la faccia come un pallone e per lenirgli il dolore Miguelin lo unse con il Castrol del motore, dato che non c'era niente di meglio a bordo. Con il viso ridotto ad una dolorosa maschera grottesca volle continuare stoicamente a finire la giornata, mettendosi a disposizione per la fase di alaggio.
Era già passato mezzogiorno quando il Baracoa entrò in uno stagno circolare di relitti, tronchi d’albero e sargassi che si estendeva par un paio d’ettari: qui la corrente era sparita, il mare meno mosso e sotto all'immondizia era pieno di pesce di tutte le dimensioni. La barca spense il motore e gettò l’ancora galleggiante perché non poteva più proseguire lì in mezzo: avremmo dovuto sparpagliarci, scansando i rifiuti con le mani per procedere, e Miguelin lanciò fuori bordo le nostre tanichette, collegate a meno di 15 metri di sagola, raccomandandoci comunque di non allontanarci troppo. Mi avviai nuotando con Pancho scandagliando un po’ preoccupato i dintorni: tutto l’ambiente non ispirava certo sicurezza, sotto lo spesso strato di detriti l'acqua era buia e filtrava solo qualche raggio di luce e lontano dalla barca il senso del pericolo mi rendeva iper attento, ma il pesce c’era e aspettava solo di essere arpionato.
Incontrai cose strane: prima un intero frigorifero a due scomparti in cui ci si era rifugiata una sorta di isabelita, forse un batfish, non l'ho mai identificata. Poi un enorme copertone di trattore ancora nuovo che galleggiava in posizione perpendicolare e in cui entrai comodamente nel cavo per mimetizzarmi, quasi per divertimento: sotto di me passavano fuori tiro dorados e altri bei pesci corsari che non conoscevo; ad un certo punto mi sfilò vicino anche un pesce vela.
La sua slanciata silhouette era colorata da bande metalliche chiaroscure punteggiate di macchie blu elettrico, la coda a falce era enorme e si muoveva maestosamente. Teneva la “vela” mezza abbassata, in atteggiamento rilassato e, sotto di lui, nuotavano due grosse remore che evidentemente a quella velocità riuscivano a mantenere l’andatura senza doversi attaccare con le ventose. Credo che pesasse una trentina di kgs, ma non ne sono sicuro perché mai ne avevo visto uno da vicino ed ero troppo incantato ad ammirarlo per pensare di avvicinarmi e di tirargli: la bocca era socchiusa sotto il rostro piatto e le branchie si muovevano appena nella respirazione.
Capii che s’era accorto di me perché modificò leggermente la rotta e, sempre con la stessa andatura, si portò a soli 7-8 metri di distanza, per poi deviare di nuovo e continuare il suo pattugliamento sotto la coltre di relitti. Incredibile! Riuscivo a contargli i parassiti sulla pesce liscia…
Non si può capire se non ci si è stati.
Mi accorsi che Pancho era stato tutto il tempo accanto a me ed anche lui aveva avuto le mie stesse emozioni: ci guardammo e mi sgranò gli occhi in segno di ammirazione per quel pesce che forse, come me, era la prima volta che vedeva dal vivo. Forse era lo stesso che all'inizio aveva compiuto quella carica a galla. Era sorprendente da parte sua il fatto che non gli avesse tirato automaticamente!...
Non volevo abbandonare il mio rifugio e lasciai Pancho continuare la perlustrazione da solo.
Dopo poco udii che stava sparando a qualcosa, ma sporgendomi dall’acqua non capivo dove fosse. Diedi uno sguardo alla barca e vidi che contrariamente a quanto detto, Miguelin aveva acceso il motore e si stava dirigendo dentro al basurero verso Pancho. Quando rimisi la testa sott’acqua feci in tempo a cogliere il movimento di una serie di code che si allontanavano. Non riuscii a riconoscere che pesci fossero, forse dorados, e mi rimproverai per la mia distrazione.
Poi, ad un tratto, mi accorsi che a dieci metri da me, quello che mi sembrava un tubo alla deriva tra i sargassi non era un tubo, ma un barracuda di quasi due metri! E chissà da quanto tempo mi faceva compagnia! Mi volsi verso di lui a fucile teso, ma il pesce si mise a fissarmi frontalmente sbadigliando a zanne aperte, in un chiaro tentativo d’intimorirmi e ricordarmi che questo territorio era suo, riducendosi ad un bersaglio strettissimo: nonostante l'aspetto inquietante con quei canini di 7-8 centimetri, senza pensarci tanto visto che non era lontano, mi avvicinai lentamente scansando meduse ed alghe e lo traguardai con attenzione in quella posizione, quindi gli tirai tra gli occhi. Il colpo entrò nel destro e lo mise allo spiedo come un souvlaki e il barracuda cominciò ad affondare con l’asta che era scomparsa dentro il corpo, senza poter muovere un muscolo.
Chiamai a gran voce Miguelin sulla barca e vidi che stavano issando qualcosa a circa 50 metri da me. Mi intesero, ma mi fecero segno di aspettare, che ora arrivavano. Anzi, subito dopo mi dissero di andare da loro a dargli una mano.
Riabbassai la testa e il barracuda mandava lampi penzolando attaccato alla tanichetta ad una quindicina di metri di fondo: intorno a lui s’era radunata una folla di pesce di tutte le specie e dimensioni che nuotavano in circolo incuriositi.
Tornai ad osservare quei due pelandroni che mi negavano la possibilità di ricaricare il fucile e andar giù a fare una strage: era un casino nuotare trascinandosi cima, tanichetta e pesce in mezzo a quel bordello. Il barracuda stava bene lì dove stava.
Cominciai a dirigermi verso di loro scansando la concentrazione d'immondizia che mi separava dalla barca.
Ci misi un bel po' di tempo: rametti, alghe e ogni porcheria mi s'attaccavano dappertutto e ero costretto a scansarli e a liberarmene continuamente. Quando arrivai vidi che issavano un bel dorado a bordo e Pancho che montava sulla poppa della barca.
Arrivai sulla plancetta e mi accolse una fila di facce interrogative.
-Ma dov’è la boetta tua?- mi fece subito Miguelin.
-Sta laggiù con un barracuda attaccato- risposi indicandomi le spalle e alzandomi la maschera.-
-Laggiù dove?- mi chiese Miguelin.
Mi girai un po' sorpreso e non la vidi dove l'avevo lasciata. Poi la scorsi abbastanza lontano.
Qui era successo qualcosa: non poteva essere stata la corrente e il pesce era morto.
Miguelin fu costretto a fare un largo giro per non passare in mezzo a quel punto, che era il più sudicio di tutto il basurero: trovato un varco nella scia si diresse sulla boa.
Dissi, per scaramanzia, anche se sospettavo qualcosa:- Ho preso un barracuda della madonna! Ora lo vedrete.-
Agganciammo la boetta e alammo l'asta: non c'era attaccato più niente, ma la sorpresa era d'altra natura. L'asta tornò su abbananata come mai avevo visto: le alette erano sparite.
Tutti già avevamo capito: il barracuda se l'era sbafato qualche predone!
Sull'asta da 10 c'erano anche dei segni che prima non aveva; Elivardo la prese in mano e fece:- Qui c'è uno squalo in giro: guarda!- e mostrò l'asta a Miguelin.
Con la faccia seria, strizzando gli occhi, l'analizzò:- E' un tigre. - rispose - Abbiamo chiuso.-
-Come un tigre?- intervenni preoccupatissimo.
- Ma raccontaci che è successo, intanto- fecero i tre.
Gli spiegai com’era andata e di che razza di barracuda avevo infilzato, almeno 15-20 kgs, mentre Miguelin prendeva un'espressione scettica. Elivardo e Pancho no: loro mi conoscevano bene.
- E' un tigre. Sicuro.- disse Elivardo.
- c@**o, e che picua che avevo preso, compadres!- feci a Pancho- mai vista una così! Con certe zanne bianche!! E non s’è mossa, eh! L’avevo fulminata.-
-Sì, ma quand’è così è finita. Tocca che ritorniamo a Moa.- mi ribattè un po’ amareggiato.
-Quei bastardi non ti mollano più quando scoprono che c’è da mangiare gratis. E quello era grosso: guarda com'ha ridotto l'asta, senza calcolare che razza di pesce s'è inghiottito. - concluse Elivardo, e la sua rassegnazione mi sorprendeva, ma mi mi faceva capire che si trattava di qualcosa di diverso, di superiore. Lui, quelli che era abituato a incontrare a Cayo Saetìa non li aveva mai temuti.
Miguelin aggiunse qualcosa che non afferrai.
-No, coi tigre è un’altra cosa, - gli rispose Elivardo- quelli mangiano la gente. E a Moa hanno una triste fama: là voi dovreste saperlo bene.-
-Perchè dite che era un tigre?- feci tornando alla domanda originale.
-Da queste parti girano solo tigre o martello- mi fece Pancho, che già s'era tolto la giacca.- Per come hai detto che è andata, doveva esserci un tigre. Ce ne possiamo anche andare. E, guarda, che hai avuto anche culo.-
-Ah 'mbeh!... D'accordissimo!- pensai subito.
Tutti avevano delle facce rassegnate, anzi, di chi pensa già ad altro.
Forse per via della vicinanza all’Oceano aperto e alla Corrente, qui i tigre appaiono abbastanza spesso perfino sottocosta, figuriamoci se li vai a cercare al largo.
Pochi mesi prima due sub di Moa, che pescavano in coppia lungo le coste della provincia, vennero attaccati senza motivo, dato che ancora non avevano pescato nulla, da un grosso tigre che si era spinto fin lì alla ricerca di cibo, in soli 7 metri di fondo: cercano testuggini, altri squali che depongono le uova, aquile di mare (chuchos) o carogne galleggianti. Anzi, cercano qualunque cosa si possa pappare.
Un pescatore fu azzannato alla gamba, sgrullato come uno straccio poi rilasciato, con la gamba ridotta all’osso, raschiata della carne. Poi lo squalo tornò per finirlo, ma ci trovò l’altro pescatore che era accorso in suo aiuto, un tipo al quale fumavano evidentemente i co***oni: non abbandonò l’amico ferito, ma lo aspettò a galla al suo lato col fucile teso e quando lo squalo caricò a bocca aperta, gli tirò nel muso da meno di tre metri, prendendolo proprio dove le terminazioni nervose e sensoriali dello squalo sono più concentrate. Il tigre si contorse impazzito dal dolore e s’eclissò con tutto il fucile attaccato; i due tornarono lentamente a riva, ma quello ferito non ce la fece e morì a pochi metri dalla costa, quando già si toccava, per lo choc e la perdita di sangue.
Tre giorni dopo, su una spiaggia a sei chilometri da Moa, delle persone rinvenirono la carcassa spiaggiata di uno squalo tigre femmina di quattro metri: nel muso teneva piantata un'asta di un metro e dieci. Il fucile s’era staccato.

Miguelin, dopo il recupero dell'asta, era piuttosto depresso sulla via del ritorno: la pesca era andata malissimo, per il suo metro.
C'erano state volte, mi disse Pancho, che era ritornato con la barca così piena di pesce, che avevano dovuto infilarlo anche in cabina. I quattro pezzi di oggi erano merda.
Per nascondere un po’ la sua espressione Miguelin cedette il timone a Elivardo, dandogli la rotta, e scese in cucina a preparare qualcosa: mentre io e Pancho eravamo immersi, avevano gettato una lenza con un pezzo di cotenna di maiale e avevano tirato su un paio di quelle aguglie da tre kgs che circondavano il basurero ed ora le aveva fatte a pezzi e le friggeva: erano abbastanza buone.
Le mangiammo con le mani e mi pulii sul legno della falchetta: me ne mangiai cinque pezzi.
Durante il ritorno il mare s‘era ingrossato abbastanza, ma non dava fastidio perché le onde erano laterali e la barca faceva 12 nodi. L’aliseo ci soffiava forte in faccia, così il sole ci scaldava senza bruciare: avrei avuto voglia di una bella birra gelata, ma avevo imparato a farne a meno.
Cominciai a riflettere sugli avvenimenti della giornata: pure uno squalo tigre, c@**o! Eppure non mi sentivo più eccitato del solito: sarà stato perchè nemmeno lo avevo visto, chissà...
O forse, da quando avevo incontrato il primo a Corinthia, mi ero vaccinato. Mi inquietava di più il fatto di leggere la preoccupazione sulla faccia degli altri: che Elivardo e Pancho desistessero dalla pesca così, mi faceva arrovellare. Con loro ho pescato persino di notte a Felton sparando ai robalos sotto il naso dei loro squali e non avevano mai dato segno di preoccuparsene eccessivamente. " Coi tigre è un'altra faccenda...", avevano detto, escludendo praticamente la pericolosità di tutti gli altri. Ma anche gli altri potevano attaccare, eccome. Di notte anche i gatas, gli squali nutrice, diventano pericolosi. Prima o poi, tornando qui, capirò meglio quello che succede ai Caraibi, ora avevo solo voglia d'una birra...
Troppe erano le cose di cui avrei avuto voglia a Cuba e adesso era finito pure l’onnipresente boccia di rum da pochi pesos: ma mi restava la consapevolezza di aver vissuto qualcosa che non era in vendita in nessun pacchetto vacanze e in nessuna agenzia di viaggi estremi.
Mi hanno chiesto di scrivere pezzi su rubriche di viaggi per chi ha intenzione di visitare Cuba per la prima volta... Ho rifiutato.
Come faccio a descrivere ciò che sento quando sto in questo paese e in queste acque per pensare di trasmetterlo a chi non ha la minima idea di come sia fatto? Ad essere sinceri, io non credo nemmeno di averne reso bene l’idea in questo racconto.
Forse giusto qui sul forum si può tentare.
E se un giorno dovessi scrivere qualcosa del genere lo farei solo per demoralizzare la gente ed evitare che scelga quest’isola come meta dei suoi quindici giorni di feriacce fantozziane.
Elivardo soffriva molto per le bruciature che gli aveva inflitto la medusa: con gli occhi quasi chiusi dal gonfiore, si era messo all’ombra dove stava un po’ meglio; forse saremmo riusciti a tornare a Felton tranquillamente stasera. Per un po’ la pesca avrebbe dovuto lasciarla perdere.
Chissà che faccia avrebbe fatto la moglie nell’aprirgli la porta.
A terra spartimmo il pesce sulla barca: in accordo tra noi tre, lasciammo a Miguelin le 2 cobias e un dorado: noi ci prendemmo il dorado di 30 libbre. E siccome il commercio privato del pesce è vietato in questo paese, lo macellammo e facemmo subito le parti e lo infilammo dentro a dei sacchi di iuta, per il viaggio.
Foto ricordo etc. etc. è meglio non farle mai. Per cui, mi dispiace, ma come spesso è capitato a Cuba, restano solo ricordi.
Io m'ero divertito.

FINE
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Modificato da Rijkaardt
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Beh Ricky........che dire

 

non so se la raccolta dei tuoi racconti diventerà mai un libro e non sono neanche sicuro che ti interessi ma, esperienze come queste meritano certo di essere raccontate e, così come lo fai tu.................., mi fai rivivere quelle sensazioni di quando,bambino, rimanevo inebetito ascoltando i racconti di mio nonno riguardanti tutte le guerre che aveva fatto, TUTTE.

 

Bella la storia e grande la capacità descrittiva che, come ci hai ormai abituati, rende, di fatto, superflua la presenza delle foto. :siiiii:

 

:clapping::clapping:

 

Andrew

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Bel racconto Ricky!

Per un momento sono stato in acqua con te. La pesca nell blu è un tipo di pesca che mi appassiona. Totalmente diversa dalla pesca nel sottocosta. Comunque tutte e due affascinanti.

 

Il "Basurero" non lo conosco. Forse da noi non arriva, però si mi sono buttato nelle correnti di "basura" che appaiono dopo i fronti freddi. E comune incontrarci i dorados e i wahoo.

 

Ogni volta che sento parlare della miseria di Cuba mi fa molta pena... :(

 

Ho molti amici cubani che sono dovuti scappare dal isola...

 

Comunque, una storia da ricordare, ah?

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Stupendo Racconto!!!!

 

Sopratutto per chi ama il mare :D

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Bella Riccardo!!!

Veramente un gran bel racconto di pesca!!!

 

Per quanto riguarda il tigre ho sentito davvero molte volte che questi squali sono delle fogne viventi.

sono talmente voraci che si mangiano di tutto !!! :clapping::clapping::bye:

Modificato da frog
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cobia

 

http://image.forum4you.it//viewimage.php?f...es/Ijl89430.jpg

 

pesce vela

 

http://image.forum4you.it//viewimage.php?f...es/38289387.jpg

 

dorado

 

http://image.forum4you.it//viewimage.php?f...es/ekV89924.jpg

 

great barracuda (o picua)

 

Ho trovato queste foto su un sito fichissimo della Florida, così avete un'idea di che pesci giravano.

Quanto al Wahoo, o Peto, per quello basta guardare l'avatar di Marco.Melis e lo troverete.

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