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Mario Tozzi e la legittimazione etica di caccia e pesca

| 7 Luglio 2009 | 0 Comments
Il pescatore in apnea è un predatore naturale, che piaccia o no – Foto: A Balbi

Uno fra i più rappresentativi esponenti dell’integralismo ambientalista è il Presidente del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano Mario Tozzi, che ultimamente bombarda stampa e web con lettere e articoli accorati, ponendosi un po’ come il nuovo paladino del Mare. Sembra che Tozzi sia un po’ contrariato dalla linea politica dell’attuale esecutivo e la recente affermazione, proprio nel “suo” Regno del PNAT, di un’amministrazione – quella dell’Isola del Giglio – poco propensa ad accettare bovinamente le perle di saggezza ambientale dispensate dall’ineffabile piccozzatore e pienamente consapevole della capacità  del popolo gigliese di gestire i propri interessi con grande efficacia anche in campo ambientale, con o senza AMP.

Mario Tozzi è un vegetariano convinto ed è profondamente contrario all’uccisione di qualsiasi animale, che giudica eticamente riprovevole, specie se perpetrata per il bestiale gusto di sopprimere una vita: oggi carne e pesce si trovano al mercato e non c’è bisogno di procurarseli in natura, per cui la verità vera secondo Tozzi è che si caccia e si pesca per il gusto di uccidere ed esorcizzare così la propria morte. Fosse per Tozzi non si mangerebbe carne, non a caso ha sostenuto l’iniziativa con cui il NEIC ha richiesto all’UE di interrompere i finanziamenti per allevamento e pesca, in modo da incentivare il consumo di vegetali.

Ora, fermo restando che non tutti possono contare sui lauti cache televisivi del buon Tozzi quando vanno a fare la spesa, vediamo cosa ha scritto a proposito della caccia, che odia con tutte le sue forze: “Per giustificare la carneficina spesso si sente dire che l’uomo nasce cacciatore e, dunque, che si tratti di attività  perfettamente naturale. Ma non è così. La caccia è una strategia di sopravvivenza molto recente in termini evolutivi, che risale a meno di 300.000 anni fa: prima di allora Homo mangiava quello che raccoglieva e solo occasionalmente predava animali già  morti per succhiame magari il midollo dalle ossa, dopo averli contesi a iene e avvoltoi. La caccia degli uomini non è un fenomeno naturale in senso stretto, ma è stata ritenuta tale grazie a un’errata interpretazione dei reperti fossili degli antenati di Homo sapiens.”

Caccia e pesca sono quindi eticamente condannate con tanto di giutificazione scientifica? Manco per niente.

La pesca in apnea comporta una selezione preventiva delle prede – Foto: A Balbi

Con tutto il rispetto per il curriculum scientifico del “Piccozza” televisivo, credo che il prof. Richard W. Wrangham, docente di Biological Anthropology all’Università di Harvard, sia un tantino più ferrato in materia. Egli sostiene in un recente libro dal titolo “Catching Fire: How Cooking Made Us Human” che fuoco e cottura del cibo hanno permesso all’uomo di fare il salto di qualità ed evolversi nella direzione dell’homo sapiens così come lo conosciamo oggi, unico esponente del genere homo non estinto.

Se è vero che deriviamo dalle scimmie e che quindi portiamo con noi una matrice genetica da erbivori, è anche vero che ci siamo evoluti e distinti dalle scimmie perché circa 2 milioni di anni fa ci siamo trasformati in “cooking animals”, animali che cuociono i cibi. Con la cottura abbiamo ottimizzato l’assunzione di un cibo difficile da masticare ma dall’alto contenuto energetico come la carne, e abbiamo migliorato il processo digestivo, riducendo il tempo necessario all’alimentazione e aumentando quello per attività  di altro tipo, comprese quelle ludiche e venatorie, che ci hanno reso ciò che siamo, consentendoci di evolvere sulla direttrice dell’aumento di volume cerebrale.

I reperti fossili ci dicono che a un certo punto l’uomo ha iniziato ad avere le caratteristiche del “cooking animal”, che sono la piccola bocca, i piccoli denti ed un più piccolo apparato digestivo, e il Prof. Wrangham ipotizza che questo sviluppo risalga a 1.8 milioni di anni fa, con l’homo erectus. L’evoluzione verso una bocca piccola con denti di ridotte dimensioni, sotto il profilo evolutivo, si giustifica solo con un cambiamento significativo dell’alimentazione, mentre la riduzione del volume del bacino testimonia un ridimensionamento dell’apparato digerente e implica l’assunzione di cibi maggiormente digeribili ed energetici. Cibi più facili da mangiare e da digerire, ossia cibi cotti. Le più moderne ricerche nel campo dell’evoluzione umana vanno in questa direzione, puntando in particolare sul ruolo della carne e dell’attività  venatoria necessaria a procurarla, che secondo alcuni ricercatori spinse gli uomini a usare il cervello per organizzare le battute e superare i limiti del proprio corpo, derivato dalle scimmie erbivore ed inadatto alla predazione. La carne ha assunto un’importanza significativa nella nostra alimentazione solo con la scoperta del fuoco e della cottura, perché il fatto di mangiare carne in sé non ci distingue dalle scimmie. Gli scimpanzé, ad esempio, sembrano gradirla non poco e sono soliti accompagnarla con foglie, anche secche, probabilmente per velocizzare la masticazione.

Nel tempo di un’apnea, il pescatore subacqueo deve portare a tiro la preda e sfruttare l’unico colpo a disposizione – Foto: A Balbi

Abbiamo smesso di essere scimmie e siamo diventati uomini nel momento in cui abbiamo capito come mangiare senza problemi la carne, siamo predatori che si nutrono di altre forme di vita anche animale. Specifico “animale”, perché, se vogliamo proprio dirla tutta, non si è proprio capito come mai, nella scala dei valori di Mario Tozzi e di chi la pensa come lui, le forme di vita vegetale contino meno e meritino di esser divorate e soppresse al contrario delle forme di vita animale. Si tratta di un mistero che nessuno potrà mai spiegare o, piuttosto, la semplice conseguenza della visione profondamente antropocentrica di uno innamorato di sé e convinto della propria superiorità? A voi la risposta. Mi limito a dire che, su un piano universale, al cospetto della magnifica e perlopiù incomprensibile consistenza dell’Universo, dare più valore all’autocoscienza umana che al miracolo di un fiore che sboccia è già  un chiaro sintomo di antropocentrismo. Entrati nel campo degli “ismi”, il passo verso l’integralismo è breve, basta prendersi troppo sul serio come ci pare capiti al piccozzatore, il quale giunge ad affermare che “I cacciatori sono amanti della natura così come i pedofili lo sono degli asili nido”.

Il pescatore in apnea accetta la propria natura, così come tutti coloro che condividono con lui la cultura marinara, che è incentrata sulla pesca. Non giudica la propria pulsione venatoria così come non sente l’esigenza di giudicare una cernia che fa di un polpo un sol boccone o un leone che azzanna la gazzella, rispetto ai quali non si sente “superiore”, né il vegano che si rimpinza di sedano e cetrioli. Si cala in Mare esattamente come una delle sue creature, dove mette in moto meccanismi fisiologici che gli consentono di sopravvivere all’aumento di pressione idrostatica – ebbene sì: siamo progettati per poter andare sott’acqua – e con il fiato sospeso si comporta come un predatore marino, sfruttando la propria intelligenza per sopperire alle numerose carenze e riuscire ad avvicinare e centrare la preda nel breve tempo di un’apnea e con l’unico colpo a disposizione. Muove i primi passi nell’elemento liquido in modo goffo e con scarsi risultati, ma lentamente acquista confidenza con l’ambiente marino, si adatta alla situazione e inizia ad accumulare informazioni e ad elaborarle al fine di migliorare la propria tecnica. L’azione di pesca lo coinvolge come nessun’altra attività, cancellando ogni pensiero dalla mente e riattizzando istinti e talenti mai sopiti, gli stessi che ci hanno reso uomini.
La pesca in apnea è una disciplina di grande impatto emotivo e chi la scopre ne è spesso rapito. Non capita solo a rozzi individui, sanguinari e ignoranti: la pesca in apnea è una passione trasversale, che coinvolge persone di ogni cultura ed estrazione sociale. Coinvolge sinceri amanti del mare e della natura, come dimostra lo stesso Ermete Realacci, Presidente onorario di Legambiente, che non ha mai nascosto la sua passione per questa disciplina: chissà  come se lo spiega il buon Tozzi.

Il pescasub accetta senza ipocrisie la propria natura – Foto: A Balbi

Noi non siamo integralisti né bigotti, i Tozzi ci scorrono addosso come l’acqua del Mare. Non pensiamo che tutti debbano diventare pescatori in apnea o cibarsi di carne e pesce. Siamo convinti che ciascuno debba essere libero di assecondare le proprie inclinazioni nel rispetto del prossimo e della natura, compresa la propria: chi vuol essere vegetariano, si accomodi, ma non ci ammorbi con certi pipponi sull’etica vegan/animalista. Seguire la propria passione per la caccia o la pesca nel rispetto della legge, così come gradire una ricca fiorentina, è una libera scelta che qualcuno impedirebbe volentieri, sentendo il dovere di rendere universale il proprio punto di vista, evidentemente nella convinzione che sia il migliore possibile, la verità  vera. La logica alla base del tutto proibito, specie con riferimento alla pesca in apnea, è figlia di questo integralismo ambientalista di cui Tozzi è illustre esponente. In passato ce ne sono stati altri di personaggi di questo tipo, e quasi tutti hanno fatto la fine che meritavano.

Se solo vivesse un po’ l’isola d’Elba dove lavora come Presidente del PNAT, Tozzi si accorgerebbe che il pesce, così come ogni altro frutto del Mare, è visto come risorsa alimentare e non come attrattiva per il turista. La sovrastruttura sociale fa sì che la promessa di lauti guadagni susciti sempre l’attenzione generale e favorisca i cambiamenti di costumi, ma non credo sia un caso che nelle aree geografiche immerse in una natura ancora rigogliosa e selvaggia sia sempre presente una forte tradizione venatoria, così come non mi pare un caso che la pesca rappresenti una costante di tutte le società  che vivono a stretto contatto con il Mare. Quando la gente vive a contatto con la natura, accetta tutta la natura, anche la propria. Non si sente un osservatore esterno, ma una parte integrante dell’ambiente naturale, da cui attinge le risorse per la propria sopravvivenza.

Mi auguro che Tozzi se ne faccia una ragione e la smetta di esprimere condanne etiche tentando di legittimarle con argomenti scientifici e pseudo tali. A noi piace andare a pesca e mangiare il pescato, meglio se in compagnia della famiglia o degli amici e annaffiato con un buon bicchiere di vino. Amen. Tozzi vorrebbe abolire la caccia perché a praticarla è una minoranza: che cominci ad abolire i vegetariani, allora, visto che sono anche loro una netta minoranza. Se possibile, qualcuno spieghi a Tozzi perché la democrazia si fonda sul rispetto della minoranza e non sulla sua sopraffazione.

Per concludere e riportare questo editoriale con i piedi per terra dopo filosofeggiamenti di cui, in assenza di Tozzi, non sentiremmo alcun bisogno, consentitemi una battuta molto concreta sul PNAT e sulle AMP da istituire sullo stesso arcipelago: si sappia che tutte le AMP in questione verrebbero gestite dal parco a terra in forza dell’articolo 19 comma 2 L. 394/91, ossia al PNAT presieduto da Tozzi. Con la gestione, ovviamente, andrebbero anche i quattrini delle conseguenti sovvenzioni, senza contare che nel regime della legge quadro le aree protette si trasformano in regni satrapeschi che attraggono nella propria orbita la sovranità  popolare ed il controllo del territorio senza via di ritorno. La serietà  dell’approccio al delicato tema della tutela del Mare è denunciata dalla posizione di Tozzi circa la pesca in generale ed anche la pesca in apnea, una forma di prelievo di impatto del tutto trascurabile eppure unica grande esclusa delle aree protette, sempre più sconfinate. Si preoccupa dei diritti degli animali, Tozzi: e quelli dei cittadini? Un po’ di coerenza, di devozione al banale principio che impone di motivare adeguatamente ogni compressione dei diritti dei cittadini, specie se non si toccano attività ben più impattanti in nome di interessi economici. L’etica di Tozzi è forse leopardata?

Al momento dell’istituzione del PNAT, la tutela a mare del Giglio (ma anche dell’Elba e delle Formiche di Grosseto) non si fece per il parere contrario degli enti territoriali, ma con lo stratagemma dell’AMP, che poggia su una legge anteriore a quel parere, è possibile aggirare la volontà  popolare e mettere vincoli a mare con tanto di finanziamenti, ovviamente nel superiore interesse del Paese – per chiarezza, l’idea fu di Barbetti e non di Tozzi, che si limita a cavalcarla. L’Italia si è sempre distinta per la sua capacità  di arraffare i finanziamenti dell’UE con grande abilità, anche se poi i soldi sono spesso finiti nelle tasche dei soliti noti senza procurare alcun beneficio alla collettività. Le sovvenzioni per le AMP ci risultano siano proporzionali alla loro estensione: sarà un caso che in Italia abbiamo una superficie protetta superiore a quella di tutte le AMP del Mediterraneo messe insieme, sebbene molte esistano solo sulla carta in quanto i controlli risultano molto scarsi, per non dire inesistenti?

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