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L’ENPA Chiede al CONI: “La Pesca Sportiva è Davvero uno Sport?”

| 16 Luglio 2021

Gli addetti ai lavori sapevano che prima o poi qualcuno se lo sarebbe chiesto, probabilmente non grazie ad un’interrogazione dell’ENPA al presidente del CONI, Giovanni Malagò, ma che fosse una nodo destinato a venire al pettine era consapevolezza di tutti, al massimo ci si chiedeva “quando” sarebbe successo. 

Facciamo un breve passo indietro e spieghiamo i fatti: il 2 aprile 2021 è entrato in vigore il DECRETO LEGISLATIVO 28 febbraio 2021, n. 36 in materia di “Attuazione dell’articolo 5 della legge 8 agosto 2019, n. 86, recante riordino e riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici, nonché di lavoro sportivo.”

Le Richieste dell’ENPA

Il 25 maggio 2021 l’ENPA (Ente Nazionale Protezione Animali) rende noto che: “ha scritto al presidente del Coni Giovanni Malagò per chiedere che il Comitato Olimpico Nazionale Italiano affronti il problema dell’applicazione della legge per quel che riguarda la presenza e il trattamento degli animali nelle attività sportive. Per quel che riguarda la pesca sportiva sono presenti modalità e impatti del tutto in contraddizione con gli articoli 19 e 20 del decreto legislativo n 36 della legge di riforma dello sport che dettano chiare regole sul benessere degli animali impiegati nelle attività sportive“.

Ponendo particolare attenzione alla pratica del No Kill o Catch & Release: La tecnica del “no kill” non significa, infatti, senza sofferenza, senza dolore o senza stress. Gli ami pur privi di ardiglione sono in grado di provocare danni di una certa entità specie a carico delle strutture della bocca e della gola del pesce, che nei casi più gravi muore a causa dell’impossibilità di alimentarsi e per la gravità delle ferite riportate. Lo stesso sito di “Ataps ambiente pesca sportiva e tecnica del no kill” riconosce le conseguenze fisiche, le lesioni, oltre che il forte stato di stress a cui abbiamo accennato, con gravi conseguenze  nella possibilità di alimentazione e dunque di sopravvivenza”.

Concludendo che: “Sono aspetti che non si possono ignorare nel riconoscimento ufficiale di nessuna disciplina. Gentile Presidente, siamo fiduciosi che le questioni che abbiamo portato alla Sua attenzione siano adeguatamente affrontate dal CONI, per risolvere contraddizioni che sviliscono, sino a svuotarli di significato, i principi e le regole stabilite dalla nuova legge”.

Che l’ENPA ce l’abbia a morte con la pesca sportiva e ricreativa non è certo una novità, basti ricordare il puntuale comunicato stampa primaverile con cui, ogni anno, tuona riguardo il fatto che il prelievo ittico dilettantistico andrebbe fortemente limitato o, meglio ancora, abolito di sana pianta. Anche stavolta i rilevi dell’organizzazione appaiono del tutto pretestuosi e forzati; infatti non c’è proprio nulla degli articoli 19 e 20 del nuovo decreto che possa essere ragionevolmente applicato alla pesca. Chiunque li legga, si accorge subito che sono palesememte rivolti all’utilizzo degli animali quali partecipanti alla prestazione sportiva, come può essere un cavallo con il suo fantino o un cane con il suo conduttore.

Un Vecchio Problema

Ma tuttavia gli strali dell’ENPA portano a galla un “problema” della pesca che è sempre stato ignorato, come la polvere sotto il tappeto: una disciplina che ha come parte fondamentale del suo svolgimento il ferimento o l’uccisione di un animale, può realmente definirsi uno sport? A nessuno può essere sfuggito come la pesca sia l’unico sport riconosciuto ad avere un rapporto cruento con gli animali, un’eccezione di cui, prima o poi, qualcuno avrebbe chiesto conto.

Piaccia o no, l’attività più affine alla pesca rimane la caccia, che non è uno sport riconosciuto, ma ha dato vita a diverse discipline sportive come ad esempio tutte le declinazioni del tiro. Proseguendo il parallelo, secondo alcuni, anche la pesca non potrebbe essere uno sport, mentre senza dubbio meritano di esserlo le attività derivate come il lancio tecnico, l’apnea o il tiro al bersaglio subacqueo, ovvero tutto quello che rimane escludendo il fattore cattura e/o ferimento del pesce.

La pesca ha beneficiato, e lo fa tutt’ora, di una grande ipocrisia di fondo: considerare i pesci veri e propri animali è qualcosa che esula dal sentire di quasi tutti. I pinnuti sono indubbiamente diversi dai mammiferi oggetto di caccia: non emettono versi (con rare eccezioni), perdono poco sangue, hanno uno sguardo vuoto e inespressivo. Non è un caso se alcuni dei più noti esponenti dell’animalismo militante, sia in Italia che all’estero, possano essere imprenditori del settore ittico, senza che questo comporti alcuna accusa di contraddizione.

Peraltro, la questione sull’opportunità di considerare la pesca uno sport o meno, è diatriba ampiamente dibattuta da anni già all’interno della categoria. Le annose discussioni sul fatto che sia ormai anacronistico confrontarsi sull’abilità di catturare la maggior quantità di pesce, sono iniziate ormai più di 20 anni fa. La stessa proposta di legge Cenni – Romano (di cui abbiamo approfonditamente parlato QUI), presentata pochi mesi prima dello scoppio della pandemia, già dal titolo dimostrava una netta volontà di distinguere nettamente la pesca ricreativa (ovvero quella praticata dal 90% degli appassionati) da quella sportiva.

Perfino i più recenti regolamenti europei, non parlano più di pesca sportiva come di: “una pesca non commerciale praticata da soggetti appartenenti a un’organizzazione sportiva nazionale o in possesso di una licenza sportiva nazionale;, ma parlano solo di pesca ricreativa intesa come: attività di pesca non commerciale che sfruttano le risorse biologiche marine per fini ricreativi, turistici o sportivi.

La Svolta Durante la Pandemia

È stata la pandemia a imporre una netta sterzata di comodo, perché far rientrare la pesca, in ogni sua declinazione, tra le attività sportive era l’unica strada per poter evitare le numerose restrizioni imposte dai vari lockdown. Ma si è trattato solo di un paravento temporaneo, che non affronta né risolve il vero problema di fondo: la pesca è davvero uno sport, oppure è solo un’attività “di prelievo” come la caccia o la raccolta di funghi, erbe e frutti spontanei? E se anche si potesse parlare di pesca come sport, pur nel solo limitato ambito delle competizioni organizzate, è giustificabile che il fine di uno sport sia quello di cagionare danni o morte a degli esseri viventi?

Per alcuni, l’aura della sportività, la sfida nei confronti del pesce, sono argomenti che nobilitano la disciplina ma, quando diventano preponderanti, contribuiscono a mettere in dubbio la sua stessa natura di attività predatoria finalizzata, almeno in linea generale, alla cattura e al consumo a tavola del pescato. Può sembrare questione di poco conto, ma è invece sostanziale: fino a quando si effettua un prelievo oculato e motivato (dall’autoconsumo appunto) nulla degli argomenti animalisti riguardo la sofferenza inferta agli animali senza necessità (art 544-ter Codice Penale) ci riguarda, mentre nel momento in cui la dimensione sportiva diviene prevalente, ci andiamo a infilare in una spirale che rischia inevitabilmente di condannarci senza appello.

Ora, sempre ammesso che le richieste dell’ENPA ricevano una qualche attenzione istituzionale (il che non è affatto scontato) spetterà alla FIPSAS trovare delle spiegazioni convincenti, ci auguriamo evitando gli imbarazzanti scivoloni del passato, quando si è scelto di negare l’evidenza e di elevare il C&R a unica vera incarnazione della pesca sportiva, rinnegando in un colpo solo decenni di storia e di attività.

Il Commento di Giorgio Volpe

In qualità di fondatore di Apnea Magazine e persona che ha dedicato lunghi anni della propria vita alla promozione di una pratica etica e legale attraverso la divulgazione, nonché alla tutela della categoria con impegno diretto alla definizione di norme più giuste e all’eliminazione di veri mostri normativi che ancora oggi continuano a farmi il sangue amaro, sento di dover dire la mia in questo particolare frangente. 

Era il 10 dicembre 2010 quando vergai un editoriale al fulmicotone, che fece molto arrabbiare il Presidente della FIPSAS Ugo Claudio Matteoli. Il Presidente aveva rilasciato un’intervista al Giornale di Feltri vestendo i panni dell’ambientalista e prendendo le distanze dai cacciatori, affannandosi a ribadire che “Nelle nostre competizioni i pesci vengono catturati e immediatamente liberati […] C’è l’obbligo assoluto di rimettere nell’acqua il pesce vivo e vegeto, senza danni”. Ancora, Matteoli – omettendo alcuni dettagli sulle competizioni di superficie, ad esempio quelle alla trota di lago – se ne usciva con dichiarazioni del tipo “Una sfida tra l’uomo e il pesce. E non è divertente se finisce con la morte dell’avversario”

Già al tempo era chiaro che le dichiarazioni di Matteoli si spiegavano con le forti pressioni delle ale “no Kill” infiltrate nella federazione, gente miope che ha pensato di nobilitare la pesca sportiva, secondo la sua distorta visione, sacrificando alcune pedine federali, in primis la pesca in apnea.

Dato che non è pensabile infilzare un pesce per poi rilasciarlo, magari con un cerotto, fu subito chiaro che quelle dichiarazioni – a prescindere dal grado di consapevolezza che le aveva partorite – stavano a significare che la pesca in apnea, ancor oggi disciplina federale, rappresentava una pedina sacrificabile in nome di un bene superiore, ossia lo sdoganamento della pesca sportiva come attività sportiva slegata dall’uccisione del pesce. L’improbabile paradigma era quello secondo cui la vera pesca sportiva è quella che implica il rilascio del pesce…

Già al tempo, quasi 10 anni fa, non avevo dubbi sulle possibili conseguenze di una simile scelta suicida. Permettetemi l’auto citazione: “Si tratta, purtroppo, di una tattica suicida, perché se oggi la priorità degli animalisti è quella di eliminare la predazione che comporta l’uccisione degli animali, una volta cancellato questo fenomeno con l’aiuto degli pseudo-pescasportivi-pseudo-animalisti potranno promuovere a problema vitale l’eliminazione di ogni sofferenza inferta agli animali senza necessità, peraltro già sanzionata dalla legge penale in vigore (art 544-ter Codice Penale), ossia, con riferimento alla pesca sportiva, al catch and release (se per le sofferenze inflitte al verme usato come esca c’è un precedente giudiziario favorevole ai pescatori, resta il dubbio di cosa potrebbe accadere se un giorno si prendessero in esame le sofferenze inflitte al pesce rilasciato sistematicamente). Quella che oggi appare come una via d’uscita per questi sprovveduti fanatici integralisti del rilascio del pescato è in realtà un vicolo cieco che snatura il concetto di pesca e lo fa accartocciare su se stesso, uccidendolo”.

L’interrogazione dell’ENPA delle scorse settimane non fa altro che confermare quanto profetizzato ben 10 anni or sono. L’unico modo per contrastare certi attacchi pseudo-ambientalisti sarebbe stata l’assunzione di una linea rigorosa, fondata sul principio per cui i pesci sono comunque destinati al consumo umano, che le attività sportive legate alla pesca educano a un prelievo regolamentato e sostenibile e che l’uccisione degli animali è un fatto che, alternativamente, accettiamo come ineluttabile conseguenza dello stato delle cose in natura o condanniamo tout-court per tutte le forme di pesca, sportiva e no. I vegani, del resto, sostengono che si può vivere anche senza mangiare pesce, no?

Riaffermare il sacrosanto diritto delle persone di procurarsi un pesce per la cena o anche di competere nel rispetto delle norme Federali per dimostrare chi abbia sviluppato meglio le doti atletiche e tecniche per interpretare un fondale e risultare maggiormente efficace nell’azione di prelievo – vale a dire quelle capacità che per millenni han fatto la differenza tra la sopravvivenza e la morte – era e resta l’unica posizione politicamente sostenibile.

L’arrocco sul principio del No Kill, intriso di ipocrisia nella misura in cui tale principio non trova applicazione in tutte le discipline diverse dalla pesca in apnea, era un suicidio politico annunciato. Apnea Magazine lo disse subito a chiare lettere, pagandone il prezzo. Casualmente, ci ritrovammo anche ad affrontare procedimenti di disciplina sportiva, noi che da sempre abbiamo sostenuto la Federazione anche fornendo consulenze gratuite su questioni complesse come quelle giuridiche. 

Che posso dire di fronte a questa ennesima riprova del fatto che, ahimè, noi di Apnea Magazine vediamo lungo? Mi auguro che sia di lezione a tutta la dirigenza federale e che d’ora in poi nessuno pensi che sacrificare qualche pedone a caso possa permettere di dominare la scacchiera.

Non è successo nelle AMP, dove dopo aver bandito la pesca in apnea si sono iniziate a fare distinzioni ulteriori e a istituire balzelli e regole stringenti per quella sportiva di superficie, mentre la pesca professionale continuava ad agire anche con tecniche devastanti come le reti da circuizione (vedi Regno di Nettuno).

Non è successo in questo scontro filosofico tra chi vede i pesci come creature dei film della Disney, salvo poi godersi cenette a base di pesce nei ristoranti più “in” di riviere e isole, e chi, pur di parare il colpo, è pronto a calare le braghe, senza neanche rendersi conto di avallare principi la cui applicazione estrema implica inevitabilmente la cancellazione tout-court del fenomeno della pesca sportiva. 

Meno male che il pesce costa molto e che la categoria della “pesca di sopravvivenza” risulta meno attaccabile da questa feccia pseudo-ambientalista e radical-chic, che mediamente parla senza conoscere una beata cippa del rapporto uomo-natura e, in particolare, di quello tra l’uomo e il mare.

Io sono nato sul Mare, lo vivo da oltre trent’anni e non ho alcun dubbio sulla funzione essenziale svolta dalle ASD di pesca in apnea. Se anche non partecipo alle competizioni da molti anni, ne difenderò il ruolo fino in fondo e mai e poi mai accetterò soluzioni di compromesso che avallano principi generali che, se portati alle estreme conseguenze, sono destinati a cancellare un certo tipo di rapporto diretto con il Sesto Continente.

Per quanto mi riguarda, nessuna delle parole che ho scritto in oltre vent’anni, sia on che off line, sarà mai utilizzabile da un detrattore della pesca in apnea. Spero solo che almeno a distanza di tanti anni il Presidente Matteoli capisca che la nostra esuberanza, a tratti sicuramente irrispettosa e per questo inappropriata, aveva validissime ragioni di fondo. Quelle che oggi vengono a galla con l’interrogazione ENPA, che avevamo chiaramente profetizzato già nel 2011.

Sarà interessante vedere come la FIPSAS risponderà alle probabili richieste di chiarimento del CONI e che cosa accadrà alle discipline, no kill e no, queste ultime oggi praticate dalla stragrande maggioranza dei tesserati. 

Da parte mia posso solo dire che la migliore chance di sopravvivenza per la nostra categoria – sia chiaro, nell’ambito della legalità – consiste nella strenua difesa di principi che non possono essere oggetto di compromesso: i pesci sono destinati al consumo umano, la pesca amatoriale è una forma di prelievo legittima e sostenibile, la pesca sportiva è un veicolo di cultura e promozione di una pratica etica e legale. Chi afferma il contrario per noi resta una tigre, e come diceva Churchill….“Non puoi ragionare con la tigre quando la tua testa è nella sua bocca”.

PICCOLO AGGIORNAMENTO: poco dopo aver finito di scrivere la prima bozza di questo mio commento, mi è arrivata una mail pubblicitaria dalla FIPSAS, che annunciava una nuova collaborazione con una nota azienda produttrice di apparecchiature elettroniche per la pesca…in buona sostanza, il messaggio si chiudeva tratteggiando la presunta evoluzione del pescatore moderno, che fa del Catch & Release un principio assoluto, con frasi del tipo “Il punto fermo di tutte le nostre attività è uno solo, il CATCH and RELEASE, ovvero catturare e rilasciare immediatamente la preda“.

Evidentemente sono proprio duri di comprendonio certi personaggi, che – perdonate la caduta di stile – vorrei mandare cordialmente aff…insomma, ci siamo capiti!

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