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Attrezzature e casualita’ nella pesca dei grandi pelagici

| 1 Dicembre 2001 | 0 Comments

 

Maxfox, autore dell’articolo

Prendendo spunto da alcuni episodi di pesca capitati ultimamente, vorrei affrontare il tema della pesca dei grandi pelagici, sebbene non mi ritenga un esperto in materia.

In effetti, dalle mie parti, non è così frequente trovarsi faccia a faccia con grandi ricciole e lecce e, quando ciò si verifica, spesso non siamo dotati delle attrezzature idonee.

Inoltre, di fronte a prede così imponenti, anche le attrezzature più sofisticate non garantiscono mai il buon esito della cattura, poiché la casualità e l’imponderabile possono giocare un ruolo determinante.

Tempo fa, all’Argentario, stavo insidiando un branco di grossi fasciati con aspetti effettuati su un fondale di grotto.

Durante un aspetto, noto come il branco, finalmente deciso a ridurre le distanze, improvvisamente si apre come fosse una palla di castagnole.

La visibilità non supera i sette-otto metri, per cui passano alcuni istanti prima che si materializzi, dritto di muso, il testone enorme di una stupenda ricciola.

Nonostante la sorpresa, riesco a mantenere una certa lucidità che mi consente di non sparare al bestione di fronte: sono armato di un arbalete da 100 cm, ma gli elastici non sono molto potenti in quanto lo uso solitamente per razzolare saraghi.

La ricciola, giunta ad un paio di metri, si gira mostrandosi nella sua enorme mole: sarà almeno 30 Kg.

Decido di sparare nel terzo posteriore, sopra la spina anale, all’altezza della linea laterale.

Lì il corpo del predatore è più affusolato e le possibilità di riuscire a sfondarlo con il fucile che impugno sono maggiori.

Ho ragione: la freccia sfonda il ricciolone, nella frazione di secondo che precede la fuga a velocità subsonica della preda riesco a vedere distintamente almeno mezzo metro d’asta dall’altra parte.

Inizio a risalire, ma il mulinello, giunto a mezz’acqua, è già completamente vuoto!

Nel tempo in cui sono risalito di appena una decina di metri… la ricciola ne ha percorsi oltre 40!

Mentre percepisco i violenti strattoni del bestione, con la mano sinistra cerco disperatamente il moschettone cui è fissata la sagola del pallone segnasub e che dovrebbe essere fissato a sua volta ad un occhiello della cintura di zavorra.

Il moschettone non può esserci: pochi minuti prima, vista la scarsa visibilità e la profondità di esercizio, avevo pedagnato [ n.d.r. mollato il piombo collegato alla boa per marcare un punto del fondale] per non perdere il branco di fasciati.

Nilo Mazzarri con una grossa ricciola

Sono in una situazione di stallo: l’apnea è agli sgoccioli, non posso lasciare il fucile perché con quell’acqua torbida perderei sia quello che il pesce.

Non mi resta che tirare e cercare di guadagnare la superficie di forza, ma non appena accenno una trazione maggiore, improvvisamente non sento più strattoni e vedo la sagola andare in bando.

La ricciola è riuscita a liberarsi, ma come?

Giunto in superficie e recuperata la sagola, mi rendo conto del fatto che la colpa è solo mia. Infatti, il monofilo di nylon che collega l’asta al sagolino del mulinello si è rotto proprio in corrispondenza del foro del codolo dell’asta, ma ha ceduto solo perché già molto usurato da diversi mesi di impiego. Quella stupenda ricciola se n’è andata portandosi via anche l’asta. Da quell’ esperienza, controllo il grado di usura del monofilo dei miei fucili quasi ad ogni uscita e lo sostituisco diverse volte ogni stagione. E’ proprio il caso di dire che è tutta esperienza che entra.

L’estate passata mi trovavo a pescare all’Isola del Giglio, su di una secca molto conosciuta ma che talvolta può regalare belle sorprese.

La pescata procedeva bene, avevo già messo a pagliolo una ricciola sui 3 Kg ed una grossa tanuta quando, in superficie, vedo un branco di palamite passare sotto le pinne. Tre respironi e giù, a tentare un aspetto a mezz’acqua. Quando mi trovo ad una dozzina di metri, intravedo in diagonale la grossa sagoma di una ricciola: proseguo la planata nella sua direzione, ma il pescione si allontana lentamente. Non lo posso raggiungere, così tento un aspetto a mezz’acqua: non credo ai miei occhi quando la ricciola inverte la marcia e mi punta decisa, per arrestare però la sua foga poco prima di giungere a tiro. Devìa verso la mia sinistra e sono costretto a giocare il tutto per tutto: due colpi di pinne e le taglio la strada, riuscendo a guadagnare quel paio di metri che significano la possibilità di effettuare il tiro. Questa volta sono attrezzato bene, impugno un arbalete da 110 cm con potenti elastici da 18 mm e dotato di mulinello caricato con ben 70 mt di sagolino. Sono convinto che se riesco a sfondarlo, il pescione non potrà più avere scampo.

Il tiro è lungo e decido anche stavolta di mirare al terzo posteriore, più sottile rispetto al corpaccione o alla testa, e l’asta si conficca quasi completamente.

Dal fianco del predatore spunta solo l’ultimo pezzetto dell’asta, dalla prima tacca al codolo, ed è in quel punto che, partendo verso il largo a tutta forza, la ricciola riesce a piegarla quasi a 90 gradi!

Però regge, l’asta non si spezza ed io, riguadagnata la superficie, filo il mulinello fiducioso.

Con 70 metri di sagolino da gestire sono sicuro che con un po’ di pazienza avrò ragione della stupenda ricciola, stimata in almeno 25 Kg. Passano alcuni minuti, il pesce mi sta lentamente tirando verso il largo, strappa il monofilo di nylon che mi collega alla boa segnasub ma è sempre sotto controllo. Improvvisamente la casualità: sto recuperando a forza di braccia un po’ di sagola faticosamente riguadagnata quando il pescione smette di tirare.

Maxfox con la leccia del racconto

La sagola va in bando più velocemente di quanto io non riesca a recuperare: la ricciola mi sta venendo incontro, ma dalla superficie ancora non posso vederla. Quando riesco a rimettere in trazione la sagola, l’irreparabile si è già verificato: all’altro capo del filo ormai c’è solo l’asta, piegata e desolatamente vuota.

Penso che abbia ceduto l’aletta di ritegno, ma non è così. Tutt’ora non capisco come quella ricciola sia riuscita a liberarsi, ma sono certo che almeno non sia dipeso da una carenza della mia attrezzatura.

L’ultimo episodio che voglio raccontare riguarda la cattura, questa volta andata a buon fine, di una grossa leccia, effettuata pochi giorni fa all’Argentario.

Insieme a mio fratello Giorgio e all’amico Giovanni, eravamo partiti un sabato mattina piuttosto freddo e caratterizzato da un forte vento di grecale. L’unico posto dove trovare un po’ di ridosso era l’Argentario, ma sicuramente le premesse non erano delle migliori. Ciononostante, non appena scesi in acqua notiamo subito un discreto movimento di pesce e catturiamo un paio di saraghi e qualche enorme muggine, varaghi per la precisione. Sono pesci d’alto mare, che in questo periodo accostano in branchi spesso numerosissimi. Sono tutti enormi, dal chilo e mezzo ad oltre tre chili ciascuno.

Decidiamo di spostarci ed anche qui troviamo un enorme branco di varaghi, che però ha un comportamento molto strano: sono appallati [n.d.r. riuniti in un branco molto compatto], formano un cilindro del diametro di alcuni metri che va dal fondo alla superficie. Nuotano sfiorandosi l’un l’altro, in un carosello sinistro ed al tempo stesso affascinante. Il motivo di tale comportamento è presto svelato: all’improvviso compaiono tre lecce, sembrano indiani che girano in cerchio attorno ad un convoglio di carri di pionieri.

E’ uno spettacolo veramente emozionante, ma dopo qualche attimo l’istinto del predatore prevale: devo cercare di catturare uno di quei pescioni!

Ancora uno scatto per il soddisfatto Maxfox

Faccio la capovolta e mi dirigo verso due massi sul fondo: l’idea è quella di effettuare un aspetto, ma i predoni non mi danno neanche il tempo di raggiungere il fondo. Forse rappresento un intruso al loro banchetto, così mi puntano in modo deciso. Sparo alla più grossa, un pesce di 16 Kg e la colpisco di muso, nel testone. E’ vicinissima, non più di due metri e l’asta la sfonda quasi completamente. La leccia ha un attimo di esitazione, poi con due potenti torsioni del corpo sembra liberarsi dall’asta. Non credo ai miei occhi! Vedo distintamente l’asta cadere sul fondo, ma inspiegabilmente il mulinello sta filando ed è già quasi vuoto. Penso che il pescione sia rimasto incastrato all’impiombatura finale del monofilo, così mollo il fucile ed inseguo la leccia a forza di pinne.

La visibilità in acqua è ottima, vicino ai 20 mt, ma pur pinneggiando a tutta forza non riesco a raggiungere il bestione e nemmeno a vederlo.

Passano alcuni minuti, sono ormai in mezzo al mare. Qui il grecale forma onde spumeggianti, ma non demordo. Finalmente intravedo davanti a me la grossa coda della leccia.

Ha sensibilmente rallentato la sua andatura ed io comincio a recuperare velocemente il sagolone della boa segnasub, fortunatamente ancora fissato alla cintura. Dal pallone pende un corto arbalete armato con fiocina che sarà sufficiente a dare il colpo di grazia alla leccia. Ormai le sono sulla verticale, sta nuotando lentamente a tre o quattro metri dalla superficie.

Capovolta, due colpi di pinne e la fiocina si conficca nel testone della leccia, finalmente vinta.

La gioia per la rocambolesca cattura è subito turbata dall’accorgermi di quanto mi sono allontanato da riva.

Riesco a vedere, lontanissimo, il gommone sul quale mio fratello e Giovanni mi stanno cercando. Grido, mulino il fucile in aria, ma sono troppo lontani per vedermi. Le onde sono così alte da nascondere anche il pallone segnasub.

Mi rassegno ad un faticoso rientro a nuoto controcorrente quando una piccola barca di trainisti, in transito tra me e il gommone, mi avvista e va ad avvertire mio fratello. Vedo la prua del gommone dirigere verso di me e poco dopo le facce di Giorgio e Giovanni, preoccupate ed incuriosite.

“Che diavolo ci fai in mezzo al mare?”.

Rispondo con un sorriso di soddisfazione: “Chiedetelo al pesce che ho appeso sotto al pallone!”

Quando si dice “il caso”: la leccia non si era semplicemente liberata dall’asta, ma l’aveva spezzata di netto all’altezza della prima tacca. Ma il moncherino di asta, conficcato fino al codolo, frontalmente, nella testa del pesce, aveva tenuto molto bene, stante l’angolazione con cui la leccia era fuggita rispetto alla sagola in tensione. Questa volta, sebbene l’attrezzatura non fosse del tutto appropriata, la leccia, nonostante avesse addirittura spezzato l’asta, non è riuscita a liberarsi.

In conclusione, quando si ha a che fare con pescioni come ricciole e lecce, è sì necessario essere attrezzati con fucili idonei e perfettamente efficienti, ma occorre anche essere assistiti da quel pizzico di fortuna che non guasta mai!

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