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GARUM-preparazione come nell'antica Roma


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Ho sentito dire che in Campania c'è un posto dove ancora adesso fanno una roba simile e che è naturalmente invendibile grazie alle potenti & unificanti regole CE del cacio. Cacio senza i vermi, naturalmente... cacio sverminato nonostante fosse una tradizione sarda vecchia tanto quanto il garum o la temutissima pajata romana. :bag:

 

Appena sò qualcosa di più te la comunicherò perchè di tanto in tanto sento degli amici archeologi "sperimentali" che per lavoro fanno proprio questo: ricreano situazioni e modi di vivere di popoli antichi in un ambiente simulato.

 

Tanto per cominciare sembra che ci fosse garum da ricchi e garum da poveri a seconda della qualità del pesce e della località DOC o DOCG di produzione. :boxed:

Eh eh.. il mondo non cambia mai! Sopratutto il nostro... :frustry:

 

http://www.archeogate.it/subacquea/article.php?id=123

Pesca e stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce in Sicilia: S. VITO (Trapani), CALA MINNOLA (Levanzo) - di Gianfranco Purpura

 

Redazione Archaeogate, 03-01-2002 http://www.archaeogate.org/images/print.gif

 

In: Sicilia Archeologica, XV, 1982, 48, pp. 45-60.

 

II famoso cratere del IV sec. a.C. con la scena del venditore di tonno, proveniente dalla necropoli di Lipari e custodito nella collezione Mandralisca di Cefalù, conferma l'importanza della pesca in generale ed in particolare di quella del tonno per l'antica economia siciliana e la frequenza del rinvenimento di resti ossei di pesci e di conchiglie nei contesti archeologici siciliani ne dimostra la diffusione fin dalla più remota antichità[1].

 

La propensione delle più ricche mense omeriche verso la carne arrostita, che riservava ai poveri l'uso del pesce[2], se pur si impose in Sicilia, ben presto dovette apparire superata e le fonti greche parlano di ricette siceliote a base di pesce, anche se non sempre in termini del tutto lusinghieri[3]. Riscuotevano l'approvazione dei buongustai antichi le murene del Peloro, il gamberone imperiale di Catania, le conchiglie di Tindari e del Peloro, le sardelle di Lipari e, naturalmente, il pesce spada ed il tonno[4]. Nello stretto di Messina, oltre alla pesca del pesce spada, si praticava la pesca del pesce rondine ed Eliano, citando Sofrone, parla genericamente della pesca del tonno e di tonnare in Sicilia[5].

 

A questa ampiezza e varietà di notizie non corrisponde però eguale precisione sull'ubicazione degli stabilimenti per la lavorazione del pescato e del tonno, che pure dovevano essere numerosi. Dalle fonti sembra che possa desumersi l'esistenza di stabilimenti del genere solo a Pachino, Tindari, Cefalù e Cetaria, ma le monete di Solunto con l'effigie del tonno rivelano, probabilmente, nei pressi di questo centro l'esistenza di un altro impianto, che dal V sec. a.C. funzionava ancora in età romana (fig. 1)[6].

 

Gli stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce e per la conservazione delle eccedenze del prodotto non solo provvedevano alla salagione del pescato ed erano, quindi, ubicati in vicinanza di saline, ma curavano anche la prepazione di una apprezzata salsa di pesce, il garum, composta di intestini di sgombri o di tonni, talvolta mescolata con piccoli pesci interi, lasciati a macerare in vasche con il sale per circa due mesi, al calore del sole[7]. Negli stabilimenti più importanti il processo di maturazione poteva essere accelerato con il calore di una vicina fornace. AI termine il prodotto era filtrato e si distingueva il «fiore» dal liquamen, di minor pregio. II garum veniva consumato come condimento, talvolta miscelandolo con vino (oenogarum), olio (eleogarum), aceto (oxygarum), acqua (hydrogarum) e pare che l'invecchiamento ne migliorasse la qualità. II migliore era ritenuto quello prodotto con viscere e sangue di tonno (aimàtion), ma egualmente apprezzato era il garum nero di sgombro spagnolo. Preparato, infatti, in origine dai greci del Ponto, sembra che già in età arcaica sia stato introdotto dagli emigrati ionici in Spagna[8], ove divenne prodotto di primaria importanza. Fonte di grandi guadagni per i cartaginesi in età ellenistica, continuò ad essere prodotto su larga scala sotto la dominazione romana e ad essere esportato dalla Spagna in età imperiale in caratteristiche anfore (Dressel 7 9) in ingenti quantità. Alla diminuzione del flusso delle esportazioni spagnole corrispose nell'età dei Severi l'accentuata presenza di contenitori africani per questo prodotto[9], che continuò, però, ad essere preparato anche in Spagna, ancora in età assai tarda (fig. 1)[10].

 

Gli stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce (taricheiai, cetariae)[11] non solo preparavano il garum, ma soprattutto curavano la confezione del pesce salato e del tonno (tàrichos), che si distingueva per il grado di salatura, il modo di presentazione, la natura del pesce e le diverse parti, che spesso trovano riscontro nelle suddivisioni ancor oggi note[12].

 

La cattura dei tonni, vivacemente descritta nelle fonti[13], pare che avvenisse secondo metodi vari, ma che il più comune contemplasse l'avvistamento a terra da parte di vedette issate su posti dì osservazione, capaci di valutare dal colore e dal movimento del mare l'entità del branco. I tonni, stretti in una grande rete e dalle barche che si accostavano le une alle altre, se ancora vivi, venivano uccisi a colpi di fiocina o di bastone e tratti sulle imbarcazioni o trascinati a riva nello stabilimento per la lavorazione[14].

 

Tracce di questi stabilimenti esistono ancora oggi in tutto il Mediterraneo e perfino in Atlantico, lungo la costa portoghese ed africana[15], confermando le indicazioni delle fonti che ne mostrano una maggiore concentrazione in Bitinia, Asia Minore, Nabatea, Egitto, Tripolitania, Mauretania, Spagna, Gallia, Italia, Istria, Dalmazia, Epiro e Macedonia (fig. 1). Uno dei più importanti e meglio conservati è ubicato a Cotta (Marocco) e si presenta come un vasto recinto quadrangolare con al centro l'impianto di salagione vero e proprio con numerose vasche rivestite in cocciopesto, dagli angoli smussati per facilitarne la pulizia. In prossimità sono l'impianto di riscaldamento, i magazzini per la lavorazione del pesce e la conservazione delle anfore e, in un angolo dello stabilimento, una torre, forse per I'avvistameto dei tonni, alla quale fu aggiunto un frantoio per l'olio. Anche gli altri stabilimenti noti confermano che caratteristiche salienti di essi sono le particolari vasche in cocciopesto (cetariae), disposte in serie nei pressi del mare[16] e numerosi frammenti di anfore commerciali sparsi intorno. Ben noti nel Nord Africa, Spagna, Francia, appaiono sconosciuti in Italia[17], benchè vengano menzionati nelle fonti, oltre che in Sicilia e Sardegna, a Velia, Ipponio, Turi, Pompei, Pozzuoli, Anzio (fig. 1).

 

Era, quindi, plausibile che nella Sicilia nord-occidentale, sede di numerose tonnare, attive sino a non molto tempo fa, restasse qualche traccia di queste vasche, lungo la riva del mare con numerosi frammenti di anfore attorno. La mia attenzione si volgeva soprattutto alle moderne tonnare, poichè era possibile supporre che perdurassero nel tempo le esigenze che dovevano avere in origine determinato l'ubicazione di questi stabilimenti[18].

 

Nei pressi della tonnara di S. Vito Lo Capo (Trapani) (fig. 2), lungo la riva del mare, a circa una ventina di metri dal lato N-NE, intorno ad un piccolo magazzino quadrato, attualmente deposito di attrezzi da pesca, si riscontra l'esistenza di numerose vasche rivestite in cocciopesto a grana fine con intorno molti frammenti di anfore antiche (fig. 3 e fig.4)[19].

 

Gli avanzi più cospicui dell'antico impianto si osservano a SSO dell'asse passante dalla parete a monte del magazzino (fig. 5 e fig.6). Altri resti si scorgono sulla destra, oltrepassata la costruzione. Partendo dall'angolo OSO del magazzino e proce­dendo verso nord di circa m 17, si osserva un bre­ve tratto di parete intonacata in cocciopesto ed a monte di questa, a circa m 2,90 affiora un fram­mento di pavimentazione in cocciopesto (fig. 4). Dall'angolo opposto dell'edificio (E-NE), proceden­do di una decina di metri verso nord, si osservano due testate di intonaci, distanti tra loro circa 80 cm e con facce contrapposte. Sul lato opposto del magazzino, ove l'interrato è minore, si contano al­meno dieci vasche di dimensioni varie e dagli an­goli smussati, che si distanziano tra loro da 60 a 90 cm. In analoghi impianti la vicinanza delle va­sche tra di loro e l'esiguità dello spessore dei mu­retti è stata spiegata supponendo che i bacini ve­nissero riempiti contemporaneamente, bilancian­dosi reciprocamente le spinte sulle pareti.

 

Le vasche di S. Vito sono realizzate con mu­retti di pietrame che si conservano per un'altezza media di circa 35 cm (fig. 7). Si constata, soprattutto negli angoli, la sovrapposizione di numerosi strati, piuttosto spessi, di cocciopesto. Poichè tre strati soltanto sembrano costituire la consueta impermeabilizzazione, il numero dei rivestimenti delle vasche di S. Vito rivela un'utilizzazione per un arco di tempo piuttosto lungo (fig. 8). In considerazione della distanza che separa i due gruppi di vasche a destra e a sinistra del magazzino e l'interramento a monte di esso (fig. 9), si ha l'impressione che la successiva costruzione del magazzino ne abbia distrutte alcune, ma che a monte ne esistano altre interrate ed in miglior stato di conservazione. II numero complessivo risulterebbe quindi assai elevato, anche se le dimensioni di esse, confrontate con quelle di analoghi impianti, appaiono alquanto contenute (fig. 10)[20]. Si può, quindi, supporre una grande varietà e relativa abbondanza del pescato e l'uso di diverse preparazioni.

 

Qualche frammento di macina in pietra lavica indica, forse una triturazione del sale prima dell'utilizzazione. I numerosi frammenti di tegoloni presenti nel sito furono, invece, probabilmente, destinati a ricoprire i modesti ambienti circostanti o, addirittura, le stesse vasche per proteggerle dalle intemperie, come negli stabilimenti simili, ove le scarse tracce di muri hanno fatto pensare ad abitazioni di pescatori assai precarie o, addirittura, a ripari in tenda. In questi luoghi però non mancano i rinvenimenti di strumenti da pesca, come ami, navette in bronzo o avorio, pesi in piombo o argilla per le reti, che a S. Vito non è stato possibile reperire in quanto non è stato effettuato alcuno scavo. II notevole dilavamento del terreno fa poi supporre che molti reperti si trovino in mare, nelle immediate adiacenze. Inoltre un antico relitto, segnalato dai pescatori nei pressi della tonnara, tra i 40 e i 50 metri di profondità, potrebbe essere collegato con le attività dell'antico stabilimento.

 

I cocci di anfore commerciali raccolti dal suolo presso la tonnara, prevalenti rispetto all'esiguo numero di frammenti relativi a contenitori di uso domestico o a vernice nera, consentono di avanzare qualche ipotesi sul periodo di tempo di utilizzazione dell'impianto, ma, ovviamente, solo lo scavo del sito consentirebbe di acquisire dati sicuri relativi alla cronologia ed alla sua importanza nelle diverse età. Parimenti, allo stato attuale non si può con certezza stabilire in quali tipici contenitori venisse venduto il prodotto lavorato in questo stabilimento nelle diverse epoche[21].

 

I più antichi frammenti di anfore raccolti in superficie sono della fine del IV, inizi del III sec. a.C., pochi i greci, numerosi i punici (fig. 11 nn. 1 14). Si distinguono, infatti, frammenti di anfore puniche del tipo Manà B 3 (fig. 11 nn. 1 3; fig. 13 n. 2); Mañà C1 e 2 (fig. 11 nn. 4 9; fig. 13 nn. 3 e 4) e anfore «a sigaro», Mañà D, con due diversi tipi di orli (fig. 11 nn. 10 11; fig. 13 n. 1)[22]. Indicano probabilmente una importanza dell'impianto punico nel III sec. a.C., sino alla conquista romana. Trova così, in qualche modo, ulteriore sostegno la tesi di chi, ridimensionando per l'età più antica il ruolo dei punici in occidente nella preparazione del garum, ritiene che sia soprattutto nel III sec. a.C., sotto i Barcidi, che questa industria sia stata praticata dai cartaginesi su vasta scala[23].

 

Frammenti di anfore greco italiche del III sec. a.C., qualcuno con bollo rettangolare illegibile sulle anse, sono presenti a S. Vito, ma non è, ovviamente, possibile determinarne il contenuto (fig. 11 nn. 15 22; fig. 13 n. 5)[24].

 

Non mancano orli di vinarie italiche del II I sec. a.C. (fig. 11 nn. 23 26; fig. 13 n. 6)[25], ma in numero più limitato e ciò potrebbe riflettere un calo nella produzione, conseguente ai dissesti della conquista romana. Si riscontrano anche anfore Dressel 2 5 (fig. 11 nn. 27 29; fig. 13 n. 7) dalle anse bifidi della fine del I sec. a.C., inizi del secolo successivo[26].

 

È interessante osservare che alcuni orli di anfore Dressel 7 9 (fig. 12 n. 1; fig. 13 n. 8) del I sec. d.C. raccolti sul posto sono in una caratteristica argilla giallina, con qualche raro incluso di color marrone scuro, di provenienza spagnola[27]. O indicano una improbabile riutilizzazione a S. Vito di contenitori per salsa di pesce spagnola, o si spiegano supponendo che in questo stabilimento avrebbero potuto essere venduti anche prodotti più pregiati di produzione non locale.

 

In conseguenza di un elevato numero di cocci di anfore del II sec. d.C., si può forse supporre un incremento nella produzione dell'impianto in questa età. Le anfore sono del tipo c.d. tripolitano, soprattutto delle prime due fondamentali forme: tripolitana I (fig. 12 nn. 2 3; 12; fig. 13 n. 9); e II (fig. 12 nn. 4 7)[28]. Si osserva, pure, un elevato numero di frammenti di un rigo di anforetta di presunta provenienza africana, dalle anse a doppia nervatura, di dimensioni contenute e dall'orlo stretto, che può aver contenuto solo liquidi (fig. 12 nn. 16; 20; 21; fig. 13 n. 13)[29].

 

Nel III sec. d.C. appaiono le anfore c.d. africane nei due tipi, grande e piccolo (fig. 12 nn. 8 11; fig. 13 n. 10)[30]. La presenza nello stabilimento di S. Vito di entrambi i tipi sembra confermare l'ipotesi che ambedue, oltre che per olio, potessero essere utilizzati per prodotti a base di pesce. In questo secolo sono pure presenti frammenti di anfore dalle anse rilevate dei tipi I e II di Marzamemi (fig. 12 nn. 13 15; fig. 13 nn. 11 e 12)[31].

 

Dopo la grande crisi del III sec. d.C., la scarsezza di frammenti degli inizi del IV sec. potrebbe indicare un rallentamento dell'attività in questa età, ma nei secoli successivi sembra che l'impianto abbia continuato a produrre, almeno fino all'arrivo degli arabi (fig. 12 nn. 17 19; fig. 13 n. 14)[32].

 

In conclusione l'antichità e la continuità nel tempo sembrano essere alcuni dei dati più interessanti che valgono a differenziare l'impianto di S. Vito dagli altri che, in genere, si ritengono utilizzati solo dal I sec. a.C. fino al III sec. d.C.

 

La scoperta a S. Vito di un impianto per la lavorazione del pesce potrebbe indurre a vedere in esso una conferma diretta di antiche congetture formulate sull'ubicazione di Cetaria, cittadina menzionata nelle fonti, soprattutto romane, lungo questo tratto della costa siciliana[33].

 

In realtà, la leggerezza in base alla quale, soprattutto in questi ultimi anni, sono state proposte identificazioni di siti della Sicilia antica suggerisce cautela[34]. Non è certo la scoperta dello stabilimento di S. Vito sufficiente per indurre ad affermare con sicurezza che colà fosse ubicata Cetaria, soprattutto in considerazione del fatto che nella Sicilia nord occidentale questi stabilimenti, come subito vedremo, furono più comuni di quanto finora non si sia creduto. Inoltre nell'unico passo antico che contiene un preciso riferimento topografico[35], Cetaria è indicata tra la foce del fiume Iato e Palermo e, quindi, se non si tratta di un errore, innanzitutto dovrebbe essere ricercata in questo tratto di costa e non nei pressi di S. Vito.

 

Ciò nonostante, se Cetaria risultasse essere ubicata nei pressi di S. Vito il centro abitato non dovrebbe essere ricercato nelle immediate adiacenze dello stabilimento, ma nelle vicinanze dell'insenatura ove è ubicato l'attuale paese, anche se, forse, in posizione alquanto elevata. È recente, infatti, la notizia del rinvenimento di una catacomba paleocristiana nei pressi della cinquecentesca chiesa fortezza e di una necropoli antica alle spalle del paese.

 

Già, fin dal 1977, un altro antico impianto per la lavorazione del pesce era stato riconosciuto da un turista in vacanza nell'isola di Levanzo che ne aveva dato notizia in un breve articolo, rimasto a molti sconosciuto[36]. In considerazione dell'interesse del rinvenimento, che può essere considerato il primo del genere in Italia, e dalla sua scarsa conoscenza appare opportuno ripresentare il rilievo dell'impianto effettuato in quella occasione (fig. 14).

 

Nella lingua di terra che si protende verso oriente a nord di Cala Minnola (fig. 15) sono state rinvenute almeno otto grandi vasche, allineate all'incirca nord sud verso il mare, tutte di dimensioni diverse[37], di forma quadrangolare, rivestite in cocciopesto e con gli spigoli arrotondati (fig. 16). In realtà sembra che un'altra fila di vasche si estenda ad oriente, parallelamente alla serie rinvenuta nel 1977. Le vasche sono state in parte scavate sul fondo roccioso e si presume che in origine fossero profonde circa 80 90 cm. Non sono state riscontrate intorno tracce di altre costruzioni e i numerosi frammenti fittili circostanti sono stati genericamente assegnati all'età romana, soprattutto alla prima età imperiale.

 

A giudicare dall'unica foto presentata dei frammenti, sembra possibile riconoscere un'ansa di un'anfora punica Mañá D e frammenti di orli di un'anfora vinaria italica, di una Dressel 7 9 e di un'anfora tripolitana I. Sembra, quindi, che nel III e nel I sec. a.C., nel I e II sec. d.C. questo impianto sia stato in funzione. Ma è probabile che, come a S. Vito, lo stabilimento sia stato in attività per un periodo di tempo ancora più lungo. Le vicende economiche, infatti, che determinarono il fiorire e la decadenza di questi due impianti per la lavorazione del pesce, tra di loro tanto vicini, dovrebbero essere state le medesime in entrambi i siti.

 

Con il sopraggiungere del medioevo le fabbriche antiche per la lavorazione del pesce, cadendo lentamente in disuso la produzione del garum, si trasformarono in impianti assai simili alle moderne tonnare, che sono spesso ubicate negli stessi luoghi degli antichi stabilimenti[38]. Talvolta, però, come a Levanzo, le condizioni di insicurezza dei periodi di crisi e l'isolamento del sito avranno contribuito a spezzare quel filo di continuità che lega il passato al presente. Così l'impianto di Cala Minnola, diversamente da quello di S. Vito, potrebbe essere stato abbandonato in un momento ancora imprecisato.

 

Palermo, gennaio 1982

 

© Gianfranco Purpura (Università di Palermo)

 

 

Post Scriptum: Oggi potrebbe ancora essere salvata almeno parte del grande patrimonio costituito dalle tonnare che erano in funzione sino a qualche anno fa. Le attrezzature, le ancore, le grandi barche, costruite con legname particolare e secondo tecniche navali peculiari, lentamente si disfanno in locali non più mantenuti in efficienza o, addirittura, vengono disperse. La minaccia poi della speculazione edilizia a scopo turistico incombe su di alcuni di questi impianti o ha avuto già concreta attuazione. Certamente tra qualche anno delle antiche tonnare siciliane non resteranno che ruderi, simili a quelli studiati in questo articolo.

Note

 

[1] Resti di pesci di grandi dimensioni provengono dalla Grotta dell'Uzzo tra Scopello e S. Vito Lo Capo e sono databili a partire dalla metà del VII millennio a.C. (DURANTE, Nota preliminare sull'ittiofauna e sullo sfruttamento delle risorse marine, Sic. Arch., 42, 1980, 65 e s.). Gusci di conchiglie, raccolte per scopo alimentare, si riscontrano nel paleolitico siciliano. Giovanni Mannino mi informa che in questa età sono presenti due specie di patelle, la ferruginea e la caerulea, oltre al trochus. Nel neolitico, alla sensibile diminuzione delle specie sopra citate, corrisponde la presenza del cardium, usato per decorare la ceramica. II murex, invece, in piccole quantità è sempre presente, così come il conus, il dentalium, la ciprea, usati per scopi ornamentali. Frequenti, poi, sono le offerte di pesci nelle necropoli puniche e greche della Sicilia. Nella necropoli punica di Palermo, ad esempio, in tombe del V, IV e III sec. a.C. sono state rinvenute lische di saraghi, cerniole, labridi, deposte sui c.d. piatti da pesce (TAMBURELLO, Palermo antica IV, Sic. Arch., 39, 1979, 54; CAMERATA SCOVAZZO, CASTELLANA, Palermo Necropoli punica: Scavi 1980, BCA Sicilia, li, 1981, 133 e fig. 17; TAMBURELLO, Palermo punico romana: la lavorazione del legno e dei prodotti vegetali, Sic. Arch., 45, 1981, 35 e s.).

[2] ETIENNE, A propos du « garum sociorum », Latomus, 29, 1970, 298. Sulla pesca nel mondo antico cfr. soprattutto RHODE, Thynnorum captura quanti fuerit apud veteres momenti, Jahrbücher f. class. philologie, Suppl. XVIII, 1890, 1 ss. Si veda pure STOCKLE, PWRE, Suppl. IV, 456 ss., v. Fischereigewerbe; LAFAYE, DS, IV, 1, 489 ss., v. piscatio. Sulla pesca nella Sicilia antica cfr. HOLM, St. della Sic. ant., I, Torino, 1896, 91 nt. 103; PACE, Arte e civ. della Sic. ant., I, Città di Castello, 1935, 402 ss.

[3] Frequenti sono nei sicelioti Epicarmo ed Archestrato i riferimenti a pesci ed a pietanze a base di pesce. La cucina antica prestava grande attenzione ai luoghi di provenienza dei diversi prodotti e molto apprezzato era il gusto del pesce siciliano, pescato nel mare che i sicelioti dicevano dolce per questa ragione (ATENEO, XII, 518), e, quindi, poco gradito era l'uso locale di coprire il sapore del pesce con salsa o mescolandovi formaggio, come ancor oggi si usa in alcune tradizionali ricette siciliane. PLATONE nel Gorgia (518 B) fa citare da Socrate un tal Mithaicos, autore di un trattato sulla cucina siceliota, e, oltre Archestrato di Gela, diversi autori di trattati di cucina greca, nella quale larga parte aveva il pesce, citati da Ateneo, erano del meridione d'Italia.

[4] Sulle murene cfr. ATENEO I, 4 c; PLIN., Nat. hist. IX, 169; QUINT. VI, 3, 80; MACROBIO, III, 15, 7. II gambero è menzionato in Sofrone ed Epicarmo, citati da ATENEO (III, 106; VII, 286 e 306). II gambero di Catania era tanto importante per l'economia cittadina da apparire sulle sue monete. II termine greco (kàmmaros), come molti altri vocaboli relativi a pesci ed attrezzi per la pesca, sopravvive nel dialetto siciliano (àmmaru). Cfr. GRASSI PRIVITERA, Etim. sirac., St. glott. it. IX, 105 ss. Sulle conchiglie cfr. ATENEO I, 4 c; PLIN. XXXII, 150. Le sardelle di Lipari sono menzionate in ATENEO I, 4 c.

[5] Sulla pesca del pesce spada cfr. STRABONE I, 2, 24. COLUMBA, I porti della Sicilia, Roma, 1906, 79; PACE, op. cit., I, 404. Sulla pesca del pesce rondine cfr. PAUSANIA V, 25, 3. PACE, op. cit., I, 403. Sulla pesca del tonno in Sicilia si veda ELIANO, Anim. hist. XV, 5 6; ATENEO V, 44.

[6] Sullo stabilimento di Pachino cfr. ATENEO I, 4 c; SOLINO V, 6. Esso era probabilmente ubicato a Marzamemi o a Capo Passero, ove esistono ancor oggi delle tonnare. È noto che in questa zona giacciono numerosi carichi antichi e sembra che vi sia una relazione tra l'ubicazione degli antichi stabilimenti per la lavorazione del pesce e i relitti di navi, naufragate nei pressi (fig. 1). Sullo stabilimento di Tindari si veda ATENEO VII, 302. Da COLUMBA e PACE (l.c.) la tonnara di Tindari è indicata ad Oliveri e ricordata come ancora funzionante in EDRISI (AMARI, Bibl. arabo sic., I, Torino Roma, 1880, 67). L'esistenza di un impianto per la lavorazione del tonno a Cefalù è desunta da ARCHESTRATO, cit. in ATENEO VII, 302. Lo stagno naturale, ricco di pesci, citato da PLINIO (XXXII, 16) al castello di Eloro e corrispondente all'attuale palude di Vendicari, non ha niente a che fare con fabbriche per la vendita o la lavorazione del pesce. Su Cetaria e la sua incerta ubicazione cfr. infra nt. 35. Anche la città di Hykkara prendeva la sua denominazione da certi pesci Hykai (forse alici, acciughe), pescati nei dintorni e anche lì poteva esservi uno stabilimento per la lavorazione del pesce. Cfr. HOLM, op. cit., I, 136. Questo ipotetico impianto avrebbe potuto essere, allora, ubicato in località Baglio di Carini, ove si riscontra l'esistenza di numerosi frammenti fittili antichi e medioevali. Sulle monete di Solunto si veda MINì, Le monete della Sicilia antica, Palermo, 1979, 401 ss.; HOLM, op. cit., III, 2, 135 nt. 251; PACE, op. cit., I, 404. L'impianto di Solunto è ancora menzionato in EDRISI (AMARI, op. cit., I, 129) e forse è da identificare con la tonnara di Solanto o con quella di S. Elia, entrambe in funzione fino a qualche tempo fa.

[7] Si ritiene che la macerazione del garum non produca la putrefazione dei suoi ingredienti, ma si tratti di un processo di autodigestione del pesce attraverso la diastasi del proprio tubo digestivo, in presenza di un antisettico (il sale) che impedisce la putrefazione. A questa autolisi si aggiunge una certa fermentazione microbica che provoca una maturazione del prodotto, simile a quella del formaggio. In Vietnam esiste ancora oggi un prodotto simile detto nuoc mam e pare che una salsa del genere sia in uso anche in Turchia ed in qualche altro luogo del Mediterraneo. Sul garum cfr. KOHLER, Tàrichos ou recherches sur 1'hist. et les antiquités des pécheries de la Russie Méridionale, Mém. de I'acad. imp. des sciences de St. Petersbourg, VI, 1, 1832, 347 ss.; 394 ss.; BESNIER, DS, IV, 2, 1023, v. salsamentum; ZAHN, PWRE, VII, 1, 481 ss., v. garum; MOREL,. DS, li, 2, 1459, v. garum; MONOD, GRIMAL, Sur la veritable nature du garum, REA, 54, 1952, 27 ss.; BALIF, Un estudio sovre el garum, AEA, 26, 1953, 183 ss.; JARDIN, Garum et sauces de poisson de I'antiquité, RSL, 27, 1961, 70 ss.; PONSICH, TARRADELL, Garum et industries de salaison dans le Mediterranee Occ., Paris, 1965; ZEVI, Appunti sulle anfore romane, Arch. Class. XVIII, 1966, 229 ss.; FOUCHER, Note sur l'industrie et le commerce des salsamenta et du garum, Actes du 93e Congrès Nat. des societès savantes (Tours, 1968), Paris, 1970, 17 ss.; ETIENNE, op. cit., 297 ss.; SANQUER, GALLIOU, Garum, sel et salaisons en Armorique gallo romaine, Gallia, 1972, 199 ss.

[8] ETIENNE, op. cit., 311.

[9] ZEVI, TCHERNIA, Amph. de Byzacène au bas empire, Antiquites africaines, III, 1969, 173 ss.; PANELLA, in Ostia III, 1973, Roma, 560 ss.; ID., Annotazioni in margine alle stratigrafie delle terme ostiensi del nuotatore, Rech. sur les amph. rom., Suppl. aux MEFRA, 10, Roma, 1972, 88 ss.; ID., Anfore della Tripolitania a Pompei, Instr. dom. ad Erc. e Pompei, Roma, 1977, 144 ss.

[10] AUSONIO, XX, 1; GREGORIO DI TOURS, St. dei Franchi IV, 43. BLASQUEZ, La crisi del siglo 111 en Hispania y Mauretania Tingitana, Hispania, XXVIII, 1968, 5 ss.; ETIENNE, op. cit., 309 ss. II garum è ancora menzionato in un diploma dell'abbazia di Corbie (Francia) del 29 aprile 716. Cfr. FOUCHER, op. cit., 18 nt. 1.

[11] Così era chiamata una città in Palestina, una borgata del delta del Nilo, un insediamento in Sicilia, un gruppo di isolette in Tripolitania.

[12] Esistevano almeno tre gradi di salatura. II salato poteva essere consumato così come era o dissalato in acqua dolce o di mare (PLUTARCO, Quaest. conv. I, 9, 1. Cfr. BESNIER, Op. cit., 1025). La presentazione era assai varia: in fette, pezzi triangolari, quadrangolari o cubici. I filetti di tonno salati e seccati, somiglianti ad assicelle di quercia, detti melàndrya (PLIN. IX, 48), furono probabilmente le uova del tonno, ancor oggi così confezionate. Di recente a Corinto sono stati ritrovati in anfore puniche del V sec. a.C. (KAUFMANN, Corinth 1978, Hesperia, 48, 2, 1979, 117) numerosi resti di pezzi quadrangolari di pesci (tonno e pagello) che confermano questo tipo di presentazione del salato. Le anfore puniche di Corinto sembrano essere almeno di due tipi: Mañá A 3 4 ed anfore c.d. «a sigaro» (Mañá D). Cfr. MA?A, Sobre la tipologia de las ànforas púnicas, Cronica del Congr. Arqueol. del Sudeste, Cartagena, VI, 1951, 203 ss. (= in Inform. Arqueol., Barcelona, 14, 1974, 1 ss. con una nota di PASCUAL GUASCH). II salato è distinto dagli antichi in grasso e magro. II tonno non sembra che venisse conservato anche sott'olio.

[13] Aristotele, Anim. hist. VIII, 12 ss.; ESCHILO, Pers. 424: TEOCRITO III, 25 e s.; ELIANO, Anim. Hist., IX, 42; XV, 5; FILOSTRATO, Imagines I, 12; OPPIANO, Halieut. IV, 504 ss.; 636 ss.; LAFAYE, op. cit., 491; RHODE, op. cit., 42 SS.

[14] Una scena del genere era rappresentata in un mosaico del museo di Susa (LAFAYE, op, cit., fig. 5689). Se, quindi, probabilmente, esisteva già nell'antichità una «camera della morte», non sempre sembra che ad essa si accompagnasse un sofisticato impianto di reti fisse, simile a quello delle moderne tonnare, che tuttavia già appare in Oppiano, che parla di porte, vestiboli, percorsi obbligati. L'uso di numerosi termini di origine araba potrebbe riflettere uno sviluppo di quest'ultimo sistema soprattutto nell'età intermedia. Cfr. RHODE, op. cit., 42 ss.

[15] Sugli stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce cfr. KOHLER, op. cit., 347 ss.; 394 ss.; MESQUITO DE FIGUEREIDO, Ruines d'antiques établissements à salaisons sur le littoral sud de Portugal, Bulletin hispanique, 1906, 109 ss.; PELLATI, 1 monumenti del Portogallo romano, Historia, V., 1931, 214 ss.; TARRADELL, Marruecos antiguos, La industria de salazon del pescado, Zephirus, XI, 133 ss.; ID., Lixus, Tetuan, 1962, 40 e 51 ss.; PONSICH, TARRADELL, Garum et industries de salaison, cit.; DOMERGUE, La campagne de fouilles 1966 à Bolonia (Cadiz),X Congr. Nac. de Arqueol., Saragoza, 1969, 442 ss.; MARTIN, SERRES, La factoria pesquera de Punta del Arsenal y otros restos romanos de Jàvea (Alitante) , Valencia, 1970, 207 ss.; SANQUER, GALLIOU, Garum, sel et salaisons, cit., 199 ss. e la bibliografia cit. in questi lavori.

[16] PLINIO (IX, 92) narra che a Carteia un polpo era solito passare dal mare in uno di questi bacini per gustare il salato.

[17] Cfr., ad es., GIANFROTTA, POMEY, L'arch. sottom., Milano, 1981, 321 ss.

[18] In Sic. Arch. 24 25, 1974, 58 ss. ho avanzato l'ipotesi dell'esistenza di uno stabilimento per la lavorazione del pesce nei dintorni di Terrasini. In Sic. Arch., 28 29, 1975, 80 rilevavo la presenza di un muro antico di buona fattura, nei pressi del mare e dell'antica tonnara di Trabia, e di numerosi frammenti di anfore e di ceramica a vernice nera.

[19] La scoperta è stata casualmente compiuta nell'agosto del 1981, nel corso di una mia breve permanenza estiva in questa località. I rilievi e le foto sono di Giovanni Mannino, che qui desidero ringraziare per l'ampia collaborazione data.

[20] Le dimensioni delle vasche sono m. 1,80 x 1,85; 2,00 x 1,85; 1,50 x 1,85. Allo stato attuale non è possibile stabilire la loro originaria profondità, poichè come in molti casi simili, in parte erano ricavate scavando il piano della campagna, in parte si ergevano in elevato e in quelle vasche oggi affioranti a S. Vito il bordo superiore è ovviamente andato distrutto. Si può solo ipotizzare una profondità di una ottantina di centimetri. Le sedici vasche di Cotta sono di m. 0,80 x 0,80; 1,80 x 1,80; 1,80 x 0,80 e 1,80 x 0,60. Le vasche di Lixus, ben 147 bacini, relativi ad una decina di diversi stabilimenti vicini, ma tutti senza impianto di riscaldamento, hanno dimensioni assai varie, ma in genere di m. 3,20 x 1,50; 2,00 x 2,00; 2,20 x 1,00; 2,20 x 1,50. Le quantità di sale e di pesce, utilizzate in questi impianti, possono essere calcolate sulla base delle dimensioni delle vasche e, talvolta, sono davvero considerevoli. Cfr. PONSICH, TARRADELL, op. cit., 83; ETIENNE, op. cit., 307 ss.

[21] La determinazione dei tipi caratteristici di contenitori nei quali veniva venduto ed esportato il prodotto delle diverse fabbriche antiche nelle diverse epoche potrebbe consentire di acquisire importanti risultati per la storia degli scambi economici e commerciali nel mondo antico. Purtroppo, il fatto che spesso sia stata data notizia di opifici antichi senza indicare il tipo di contenitori utilizzati o prodotti è sintomatico della scarsa cura che gli archeologi fino ad un passato non troppo lontano hanno dedicato a questo tipo di dati.

[22] Anfore c.d. «a sigaro» piene di lische di pesce tagliato a pezzi sono state ritrovate a Corinto (KAUFMANN, op, cit., 117 ss.). Sulle anfore puniche, oltre a CINTÀS, Céramique punique, Tunis, 1950), cfr. MAÑ?, op. cit., 203 ss.; ALMAGRO, La necropolis de Ampurias, Barcellona, 1953, I, 398 ss.; CULICAN, The phoen. punic pottery, Motya 1955, Pap. Brit. School Rome, 26, 1958, 21 ss.; PASCUAL GUASCH, Las anforas punicas, CRIS, Revista de la Mar, Barcellona, 95, 1966, 13 ss.; PONSICH, AIfarerias de epoca fenicia y punito mauritania en Kouass (Marruecos), Papeles lab. de arqueol. Valencia, 4, 1968, 1 ss.; PASCUAL GUASCH, Un nuevo tipo de anfora punita, AEA, 42, 1969, 12 ss.; SOLIER, Céramiques puniques sur le littoral du Languedoc, St. Benoit, li, Bordighera, 1972, 128 ss.; PASCUAL GUASCH, Underwater arch. in Andalusia, IJNA, 2, 1973, 107 ss.; JONES EISEMAN, Amphoras from the Ponticello shipwreck (Calabria), IJNA, 1973, 2, 13 ss.

[23] ETIENNE, op. cit., 311.

[24] Sulle anfore greco italiche cfr. BENOIT, Typ. et ep. amph., RSL, 23, 1957, 247 ss.; BELTRAN LLORIS, Las amphoras romanas en Espana, Saragoza, 1970, 338 ss. Di recente su queste anfore cfr. DE LUCA DE MARCO, Le anfore comm. delle necropoli di Spina, MEFRA, 91, 1979, 2, 585 e s. Assai frequenti in Sicilia, si suppone che queste anfore siano di produzione locale. Rinvenute a Terrasini (Sic. Arch., 24 25, 1974, 49 ss.) e in molti altri luoghi siciliani, costituivano il carico principale del relitto di Capistello (Sic. Arch., 39, 1979, 7 ss.).

[25] Sulle vinarie italiche cfr. LAMBOGLIA, Sulla cronologia delle anfore rom. di età repubblicana, RSL, XXI, 1955, 241 ss.; BELTRAN LLORIS, op. cit., 301 ss. Numerosissimi sono i relitti siciliani nei quali è presente questo tipo di anfora: ad es. il relitto della Triscina (Selinunte) e di Cala Gadir (Pantelleria). Cfr. Sic. Arch., 28 29, 1975, 64 ss.

[26] Sulle anfore Dressel 2 5 cfr ZEVI, Appunti sulle anfore rom., Arch. Class., cit., 214, ss.; BELTRAN LLORIS, op. cit., 348; ZEVI, TCHERNIA, Amph. vin. de Campanie et de Tarraconaise à Ostie, Rech. sur les amph. rom., Suppl. aux MEFRA, 10, Roma, 1972, 35 ss.; PANELLA, Annotazioni in margine alle stratigrafie delle terme ostiensi, cit., 72 nt. 3. Queste anfore appaiono sul relitto Drammont D, studiato da JONCHERAY (Cahiers d'Arch. sub., II, 1973, 21 ss.). Sulla presenza di esse in Sicilia cfr. Sic. Arch., 35, 1977, 57.

[27] Sulle anfore Dressel 7 9 cfr. ZEVI, op. cit., 229 ss.; BELTRAN LLORIS, op. cit., 463 ss. Numerosi sono i relitti con anfore di questo tipo (fig. 1). II più attentamente studiato è quello di Port Vendres II (Archeonautica, II, 1979). II relitto di Terrasini trasportava questo tipo di anfore di provenienza spagnola (Sic. Arch., 24 25, 1974, 45 ss.).

[28] Sulle anfore «tripolitane» cfr. PANELLA, in Ostia 111, Roma, 1973, 560 ss.; ID., Annotazioni, cit., 78 ss.; ID., Anfore della Tripolitania, cit., 144 ss. Sulla presenza di esse in Sicilia cfr. Sic. Arch., 28 29, 1975, 82 e s. e Sic. Arch., 35, 1977, 57.

[29] Cfr. PANELLA, in Ostia 11, Roma, 1970, fig. 523; GIANFROTTA, Arch. sott'acqua, BA, 10, 1981, 74 fig. 16. Esemplari più tardi in The Athenian Agorà, Pottery of rom. period, V, Prìnceton, 1959, tav. 16; 28; 31; 32; URSALOVIC, Esplor. e preserv. arch. sottom. nella Croazia, Zagreb, 1974, 140 nn. 146 149.

[30] Sulle anfore «africane» cfr. ZEVI, TCHERNIA, op. cit., 173 ss.; PANELLA, Annotazioni, cit., 88 ss., II relitto di Annaba (Algeria), conteneva anfore «africane» con striscioline di piombo avvolte intorn alle anse, che indicavano una provenienza del contenuto da diverse officinae. LEQUEMENT (Etiquettes de plomb sur des amphores d'Afrique, MEFRA, 1975, 2, 667 ss.) ha supposto che queste officine fossero industrie africane per la lavorazione del pesce. Anche queste anfore sono frequenti in Sicilia. Cfr., ad es., Sic. Arch., 28 29, 1975, 81 ss.; Sic. Arch., 30, 1976, 25 ss. e Sic. Arch., 35, 1977, 57.

[31] PANELLA, Annotazioni, cit., 89 ss.; The Athenian Agorà, cit., tav. 28, 29 e 31; URSALOVIC, op. cit., 139 nn. 122 e 123.

[32] Cfr. JONCHERAY, La navire de Bataiguier (Cannes), Archeologia, 1975, 45, in cui appaiono anfore con orli simili in un relitto saraceno del X sec.

[33] CIC., Verr. III, 103; PLIN. Nat. Hist. III, 91; TOLOMEO, Geogr. Ili, 4. Sull'ubicazione di Cetaria cfr. HOLM (op. cit., 1, 91 nt. 103; 190; II, 482 nt. 5), che la identifica con Tonnara, dalle parti di Isola delle Femmine e PACE (op. cit., I, 309 e 404) che afferma che essa fu una stazione itineraria nel Golfo di Castellammare, accettando quanto già sostenuto da AMICO, Diz. topografico della Sicilia, I, Palermo, 1855, 323, v. Cetaria; COLUMBA, op. cit., 57 e ZIEGLER, PWRE, XI, 1, 360, v. Ketaria.

[34] Cfr. MANNI, Geogr. fis. e polit. della Sicilia antica, Roma, 1981.

[35] II geografo TOLOMEO (III, 4) menziona Cetaria come un luogo della costa siciliana tra Panormo ed il fiume Bathys. HOLM (op. cit., I, 84 ss.) ha identificato il Bathys con l'odierno fiume Jato, che scorre ad occidente di Partinico. In un precedente articolo (PURPURA, II relitto di Terrasini, Sic. Arch., 2525, 1974, 58 ss.) indicavo ipoteticamente una ubicazione di Cetaria nei dintorni di Terrasini, ove esistono almeno due siti costieri antichi, finora pressochè sconosciuti, che potrebbero aver avuto in antico questa denominazione. Uno in località S. Cataldo alla foce del torrente Nocella era nel medioevo lo scalo marittimo di Partinico, detto Ar Rukn (l'angolo), cfr. D'ANGELO, Insed. medioev. nel territorio circostante Castellammare del Golfo, Arch. Mediev., IV, 1977, 344. L'altro, dotato persino di un antico molo semisommerso, nei dintorni della Torre Molinazzo era nell'età intermedia lo scalo marittimo di Cinisi. In mancanza di elementi più consistenti l'ubicazione di Cetaria è comunque destinata a rimanere incerta.

[36] BERGONZONI, Una industria romana nelle isole Egadi, Antiqua, 7, 1977, 26 ss.

[37] La vasca 2 misura m 3 x 3,20 x 60, ma probabilmente non è la più grande.

[38] Agli inizi dell'ottocento le principali tonnare della Sicilia nord occidentale erano: Cefalù, Lupa, Trabia, S. Nicolò, Solanto, S. Elia, S. Giorgio di Palermo, Arinella, Vergine Maria, Mondello, Capaci, Sicciara, Ursa, Magazzenazzi, Carini, Castellammare, Trapani, Scopello, S. Vito, Bonagia, Cofano, S. Giuliano, Formica e Favignana. Sulle tonnare medioevali e moderne cfr., soprattutto, LA MANTIA, Le tonnare in Sicilia, Palermo, 1901. Notizie sull'esistenza di questi stabilimenti nelle diverse epoche si ricavano inoltre da EDRISI, op. cit.; LUCA DE BARBERIIS, Liber de secretiis, a cura di MAZZARESE FARDELLA, Milano, 1966; Relazione sulle tonnare della costa da Mondello a Mazara del 1576, in BAVIERA ALBANESE, In Sicilia nel sec. XVI: verso una rivoluzione industriale?, Caltanissetta Roma, 1974, 159 ss.; FAZELLO, De rebus siculis, dec. I, Catania, 1749, 352; Manoscritto sulle tonnare del marchese di Villabianca in Biblioteca Comunale di Palermo (Ms. Qq E 97, fol. 56 64); D'AMICO, Osservazioni pratiche intorno alla pesca, corso e cammino dei tonni, Messina, 1816 (in appendice Relazione istorica e descrizione di tutte le tonnare di Sicilia); DENTICI, Le feriae tonnitiarum et cannamelarum, Tommaso Natale, 1976, 576. Alcune delle tonnare medioevali non erano più in funzione già nei secoli successivi, come forse la tonnara normanna menzionata in un documento del 1176 e sita «in insula quae dicitur Fimi, prope portum Galli». Cfr. PIRRI, Sicilia sacra, I, Palermo, 1733, 454.

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Appena sò qualcosa di più te la comunicherò perchè di tanto in tanto sento degli amici archeologi "sperimentali" che per lavoro fanno proprio questo: ricreano situazioni e modi di vivere di popoli antichi in un ambiente simulato.

 

spettacolo!! grazie.... :thumbup:

 

sembra che nell'antichità lo mettevono su tutto... l'unica cosa che si avvicina è questa ricetta...

comunque è un casino perchè anche gli studiosi da quello che ho capito non hanno fonti dove attingere...

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