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La Pesca Sub al Femminile

| 6 Settembre 2001 | 0 Comments

 

Naomi Spicer, campionessa Australiana di pesca subacquea categoria femminile

Donne e pesca sub, sarà davvero un binomio così impensabile?

Certo, non è facile trovare donne appassionate di pesca sub, ma questo non significa che le signore non possano cimentarsi con successo in questa splendida disciplina.

In un paese come l’Australia esiste addirittura un campionato femminile: la campionessa Naomi Spicer, atleta del Team Omer internazionale, è un vero condensato di grazia femminile e istinto venatorio.

In questo articolo, Cristina Paolini ci racconta il suo bellissimo rapporto con il mare e la pescasub, che pratica con soddisfazione da dieci anni. La speranza, neanche a dirlo, è che il numero di donne appassionate aumenti sempre più!!

Ho 34 anni e da circa 10 ho scoperto la pesca subacquea, grazie ad un mio grande amico che già la praticava con successo.

L’amore per il mare mi accompagna da sempre e credo che affondi le sue radici nelle mie origini elbane e corse. Fin da bambina, infatti, ero solita correre a piedi nudi tra gli scogli per afferrare granchi e gamberetti e passavo ore ed ore ad insidiare i ghiozzi nelle pozze scure con la correntina a mano avvolta intorno al sughero, utilizzando come esca una chiocciola “granita” spaccata con un sasso oppure una patella.

La tradizione “alieutica” familiare mi ha portato per lungo tempo a prediligere la pesca con la canna, dalla barca o dalla scogliera, ma i miei momenti magici li vivevo sempre e comunque in acqua, attaccata ad uno scoglio sul fondo circondata da caroselli di gialle ricciolette o a tu per tu con la grande orata dal muso segnato e deformato dall’età, che lenta e sicura mi scivolava accanto tanto vicina da poterne contare le squame.

Poi l’incontro con chi già pescava sott’acqua ed una sola domanda: perché non provare?

All’inizio fu lo scorfanetto, poi pian piano arrivarono i primi saraghetti, le salpe, i grossi cefali.

Infine cominciarono ad arrivare le grandi soddisfazioni sotto forma di denticiotti, orate, saraghi e spigole.

Non mi metto certo a confronto con chi queste prede le cattura ad ogni pescata, me ne guardo bene, ma ogni tanto qualche soddisfazione per le fatiche ed il tanto freddo patito arriva anche per me.

Normalmente mi immergo tutto l’anno utilizzando tre mute: una tre millimetri bifoderata per l’estate, una 5 mm anch’essa bifoderata per la mezza stagione ed una 6.5 mm monofoderata liscia esternamente per l’inverno.

Vivendo in Maremma le mie mete preferite sono l’Argentario, frequentabile quasi esclusivamente con un mezzo nautico, la costa prospiciente il parco della Maremma (Talamone), Punta Ala e, d’estate, la “mia” Isola d’Elba con le sue quote impegnative, la visibilità oltre i 25 mt. ed i pesci talmente smaliziati da mettere a dura prova la pazienza di chiunque.

L’autrice dell’articolo in azione con un’orata

E’ proprio l’Elba la “palestra” estiva che mi costringe ad abbandonare il bassofondo per tentare la sorte su fondali più impegnativi, che nel mio caso si aggirano intorno ai 15/16 mt. Molti sorrideranno per la mie modeste profondità di esercizio, ma a mio parere non è tanto la profondità alla quale ci si immerge a farci conquistare prede degne di nota. La cattura di rango è frutto di allenamento, esperienza e tranquillità interiore.

Personalmente, l’ostacolo che mi impedisce veramente di fare il gran “salto di qualità” è legato ad un fatto puramente muscolare: l’unico fucile che riesco a caricare è il mio fido Apache 75, a patto di montare elastici dalla mescola di media durezza.

Costretta ad utilizzare un fucile versatile sì, ma non certo adatto alla pesca al libero in condizioni di buona visibilità, mi devo letteralmente “spolmonare” per fare avvicinare i pesci a tiro utile, usando ogni stratagemma possibile e immaginabile.

Un sarago o un’orata catturati all’aspetto in queste condizioni sono più che guadagnati, perché catture del genere presuppongono silenziosità, apnea e mimetismo: in definitiva, una maggiore raffinatezza della tecnica. E spesso la cattura alla quale si ripensa con maggiore soddisfazione non è quella del pescione più grande, ma quella più sofferta e difficile, giunta al termine di una performance ineccepibile.

Ad esempio”

quella mattina d’estate avevamo deciso di dirigerci verso l’Argentario, per effettuare la nostra battuta di pesca in una delle poche zone facilmente raggiungibili da terra: la spiaggia delle Cannelle, nei pressi dell’Isola Rossa.

La giornata si preannunciava piacevole, quantomeno per le condizioni atmosferiche: acqua limpida, sole e molto tempo a disposizione. Appena pronta scivolai in acqua e pinneggiando lentamente iniziai ad esplorare i dintorni. Dopo aver percorso pochi metri, vidi sfilare a poca distanza due cefali di grosse dimensioni, ma li lasciai perdere perché quel giorno ero entrata in acqua con un obiettivo ben preciso: riuscire a portare a tiro gli inavvicinabili (per me) saragoni che stazionavano presso una zona sui 5/6 mt. e che regolarmente vedevo dileguarsi sotto grossi lastroni, in dedali inaccessibili.

Avevo optato per una tattica ben precisa: tenermi quanto più possibile a riva, quasi “strisciare” con estrema silenziosità tra gli scogli del bassofondo fino ad arrivare in corrispondenza delle tane, situate più a largo di una quindicina di metri, per tentare di incuriosire gli animali che forse in così poca acqua non si sarebbero aspettati una simile minaccia. E così feci. Mi inabissai lentamente e finii con precisione dietro un gradino di roccia, senza sprecare un movimento. Pochi secondi e nell’azzurro di fronte a me vidi materializzarsi delle grosse sagome grigie, alcune delle quali decisero di venire lentamente verso di me. A mano a mano che i pesci si avvicinavano mi ritrassi dietro la roccia socchiudendo gli occhi. A quel punto i diffidenti saragoni sembrarono abbandonare ogni dubbio sulla mia pericolosità e si portarono a tiro. Fu il primo che si allineò col mio fucile a farne le spese. Otto etti di soddisfazione per una cattura desiderata, pianificata ed infine ”’..assaporata !

Cristina con un sarago appena catturato

Altre volte, invece, le catture sembrano “da manuale”, con il pesce che inaspettatamente si comporta come tante volte lo abbiamo immaginato ad occhi aperti, magari il giorno prima di una battuta di pesca preparata da giorni, oppure mentre sistemiamo l’attrezzatura e controllando il dorso dell’asta con un occhio socchiuso ci lampeggia davanti la visione di uno splendido pesce all’estremità opposta della freccia.

E’ quanto mi è successo una volta durante una bellissima mattina di Luglio.

Mi trovavo come ogni anno all’isola d’Elba e quel giorno io e mio marito – che con me condivide la passione per la pesca subacquea – decidemmo di recarci di buon’ora presso lo scoglio dell’Ogliera, antistante il bel paesino di Pomonte, situato nel versante sud-ovest dell’Elba. Tutta la zona è molto frequentata dai turisti durante il periodo estivo, poiché a breve distanza dalla piccola spiaggia di ciottoli, adagiato su un fondale di soli 12mt., si trova il relitto della Elviscott, una nave da carico che fece naufragio una trentina d’anni fa un po’ più al largo della posizione attuale. Nei miei ricordi d’infanzia il relitto emergeva per un terzo dalle acque, e ogni tanto capitava che qualche incauto pescatore subacqueo rimanesse intrappolato nel ventre della nave mentre cercava di estrarre qualche grossa cernia arpionata negli scuri meandri delle lamiere. Per scoraggiare gli avventati subacquei il relitto venne allora parzialmente smembrato e trascinato più a riva, dove è divenuto l’attrazione principale per i bagnanti che possono così ammirare le meravigliose concrezioni multicolori che ormai ammantano completamente il natante.

Indossate le mute, scivolammo dolcemente in acqua. Un breve saluto e ci dividemmo: mio marito decise di puntare dritto sul relitto mentre io mi diressi sulla destra, costeggiando la bassa massicciata di pietroni granitici nella speranza di iniziare la pescata con qualche grosso e gustoso cefalo elbano.

L’acqua era come al solito limpidissima e la visibilità superava i 20mt., il sole mattutino brillava sopra e sotto la superficie, facendo risaltare il verde smeraldino dei ciuffi di posidonia sullo sfondo azzurro sino al limite della visibilità, dove ogni tanti si indovinano grosse sagome di orate, saraghi e chissà quale altre prede………

Pinneggiando lentamente ruotavo lo sguardo in ogni direzione, alternando brevi aspetti a spostamenti in superficie: la presenza di numerosi pinnuti, seppur di piccole dimensioni, insieme al sole e all’acqua chiara mi avevano reso moderatamente euforica. Ad un tratto vidi giungere da terra la grossa sagoma di un’orata che, probabilmernte messa in allarme dalla mia presenza, stava scivolando lentamente tra i grossi massi levigati del fondale per riguadagnare tranquillamente il mare aperto. Ero sicura che non avesse ben capito chi o cosa fossi, avevo infatti notato che nell’allontanarsi, quasi impercettibilmente e ripetutamente si “voltava” indietro per gettare ancora un’occhiata a quella figura scura che galleggiava immobile trasportata dalla corrente.

Non c’era un secondo da perdere: individuato in fretta un punto adatto, effettuai una silenziosa capovolta e mi appostai sul fondo tra due massi di granito. Attesi per lunghi istanti, poi vidi il grosso muso dello sparide entrare nel campo visivo e ridurre le distanze. Restai perfettamente immobile finché il pinnuto non giunse a portata di tiro, permettendomi di scoccare la freccia proprio dietro la branchia.

Cristina con la sua preda

La reazione fu moderata, al contrario della mia, in quanto uscii dall’acqua come un siluro lanciando un grido di gioia. Avevo preso una bella Orata di un chilo e cento grammi.

Anche se le soddisfazioni più grandi derivano sicuramente dalle catture di pesci pregiati e diffidenti come orate, spigole e dentici, devo dire che per chi come me ama la pesca subacquea in tutti i suoi aspetti, persino un pesce “facile” come il cefalo può regalare momenti entusiasmanti, specialmente se la preda in questione è di dimensioni generose, come quello che presi una volta lungo la costa rocciosa che dal paese di Talamone nel grossetano, continua fino a Cala di Forno, in un susseguirsi di falesie a picco, grotte marine e scogli emergenti.

Le splendide colline che digradano fino al mare fanno parte del Parco Naturale della Maremma ed offrono allo sguardo una natura dalla bellezza selvaggia e incontaminata, alla quale corrisponde un fondale vario ed interessante dove in pochi metri d’acqua è ancora possibile ammirare gorgonie variopinte, spirografi e – se si è fortunati – qualche aragostella, oltre a numeroso pesce bianco.

Dopo essere partiti con il gommone da Talamone, ci fermammo dietro mia richiesta in una zona di basso fondo ideale per me che, essendo alle prime armi, praticavo quasi esclusivamente il “razzolo” in una spanna d’acqua. Immediatamente dopo l’immersione i miei due compagni di pesca si allontanarono, lanciandomi qualche battutina ironica riguardo le mie capacita offensive nei riguardi delle specie ittiche e augurandomi il consueto “buona pesca” che ricambiai cordialmente.

Quindi rimisi la testa sott’acqua notai che i miei amici avevano effettivamente esaudito con fin troppo zelo il mio desiderio di pescare a poca profondità, in quanto in tutta la zona che potevo abbracciare con lo sguardo c’erano sì e no 3 mt. d’acqua.

Dato che il posto era caratterizzato da innumerevoli anfratti e tanette, iniziai la metodica esplorazione delle medesime e subito misi in carniere una stupenda ancorotta ancora lucente ed in perfette condizioni, che incredibilmente qualcuno aveva preferito abbandonare anziché calarsi in quell’ “abisso” per disincastrarla da sotto lo scoglio. Ancora qualche tuffo qua e là e improvvisamente sotto una piccola tettoia passante mi trovai faccia a faccia con una decina di grossi pescioni che si erano rifugiati là, forse spaventati dall’arrivo del nostro gommone.

Emozionatissima tornai in superficie solo per il tempo di riprendere fiato, quindi ritornai presso la grotticella dove mirai un esemplare a caso che rimase nel filo, uscendo dall’altra parte dell’anfratto. L’animale si dibatteva con potenti scodate ed io, nella mia inesperienza, non avevo neanche ben capito di che pesce si trattasse. Fatto sta che appena riuscii ad agguantarlo saldamente chiamai a gran voce i miei compagni di battuta, sollevando dall’acqua la bella preda. Anche se erano abbastanza distanti, le dimensioni del pesce fecero capire al volo ai miei amici che forse era il caso di venire a dare un’occhiata e si precipitarono “in planata” verso di me.

Tra i guanti stringevo un enorme e bellissimo cefalo di una specie che dalle nostre parti viene chiamato “cerina” e che risultò poi pesare poco più di 2Kg. Qualche giorno dopo, nella medesima zona, ne prendemmo altri due rispettivamente di 1.800 e 1.700 gr.

Molte altre volte ho incontrato questo tipo di cefalo, abbastanza diffuso lungo le nostre coste soprattutto nel periodo estivo e sempre, cercando di attirarlo all’aspetto, sono rimasta delusa dalla sua assoluta mancanza di curiosità verso il subacqueo.

Finchè un giorno, dopo l’ennesimo aspetto andato a vuoto, in un impeto di rabbia vedendomeli sfilare al limite della visibilità, li ho inseguiti, decisa a portarli a tiro e dopo una caccia che ha messo a dura prova i miei polpacci riuscii a stringerli a terra. A quel punto i pesci, cercando una via di fuga, mi passarono accanto sul fianco dandomi la possibilità di premere il grilletto catturandone un bell’esemplare. Da allora adotto sempre con buoni risultati questa “tecnica” che poco ha a che fare con la concentrazione e il rilassamento tipici della pesca subacquea, ma che è ugualmente molto divertente per la scarica di adrenalina che procura il veloce inseguimento e il dover sparare d’istinto, senza mirare, oltre al fatto che il premio è rappresentato comunque da un bel pesce dalle dimensioni di tutto rispetto e dalle buone carni.

E poco importa se al cavetto non è appeso un pregiato dentice o un’aristocratica spigola: ciò che conta e che quella cattura ci ha regalato emozioni bellissime ed irripetibili che, una volta tornati a casa, cerchiamo di raccontare nel miglior modo possibile a chi ci ascolta, ma che in fondo rimarranno sempre dei meravigliosi segreti tra noi e il mare.

 

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