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Franco Pavone, il gamma

Per gentile concessione della rivista Nuovo Nuoto News – Rivista d’Informazione dell’Associazione Sportiva Dilettatistica Nuovo Nuoto – Bologna – e relativo Direttore


NON SI PUO’ PARLARE DI NUOTO PINNATO SENZA CONOSCERE IL SUO FONDATORE: FRANCO PAVONE. PER INQUADRARE QUESTO PERSONAGGIO LEGGENDARIO PUBBLICHIAMO IL RACCONTO DELLA SUA IMPRESA DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE, QUANDO, ELEMENTO DI PUNTA DEL CORPO ‘GAMMA’, NUOTO’ PER 5 ORE NEL MARE DI LIVORNO.

Il testo dell’articolo è tratto dal libro di Sergio Nesi “Rivisitando storie già note di una nota flottiglia”.

Il Guardiamarina Francesco Pavone (chiamato ‘Franco’ da tutti) dette inizio alla sua parte di attacco nella notte fra il 14 e il 15 dicembre ’44. Il piano ufficiale era il seguente, in parte già iniziato dai tre gamma e fallito.
Malacarne, Bertoncin e Sorgerti, dopo l’attacco a navi mercantili nel porto, avrebbero dovuto mimetizzarsi vestendo gli abiti civili che si erano portati con loro in un sacco a tenuta stagna chiamato ‘nassa’ e crearsi un rifugio, che avrebbe accolto successivamente il materiale che Pavone doveva trasportare per effettuare altri dieci attacchi assieme ai primi tre gamma.
Pavone avrebbe dovuto trasportare dieci nasse, contenenti ognuna un assetto completo per un’azione: due bauletti con relativi sergenti e galleggianti, un vestito di gomma, una tenuta completa di lana, un paio di pinne tipo americano (così chiamate per distinguerle da quelle meno flessibili), una pompa per gonfiare i galleggianti, pinze, gomma, una retina mimetica per la testa, una pila subacquea. Ogni nassa, debitamente zavorrata, pesava 50 chilogrammi; per mezzo di una camera stagna in comunicazione con l’esterno mediante un tubicino di gomma, la nassa in acqua poteva avere una spinta o positiva, o nulla, o negativa. Dei bauletti si è già ampiamente detto.

La tenuta dei gamma era costituita, oltre che dalla muta di lana, dal vestito e dalle scarpette di gomma, dalle pinne e dalla retina, anche da una tuta blu da meccanico sulla quale erano applicati i distintivi militari, da una pila subacquea, da un coltello a serramanico, da una bussola fosforescente da portare al polso e dal celeberrimo primo orologio subacqueo stagno ‘Panerai’, primogenito di tutti gli orologi subacquei e divenuto oggetto di culto. I quattro gamma erano stati muniti di danaro sufficiente per una discreta permanenza a terra e di una carta di identità falsa.
Secondo il piano originario, prima che finisse la luna nuova, ad una data ora di determinati giorni, i primi tre avrebbero aspettato il quarto in prossimità del porto di Livorno facendo segnalazioni luminose particolari. Se Pavone non fosse giunto entro la fine di quella luna nuova, l’appuntamento rimaneva fissato per la seguente. Malacarne e gli altri lo avrebbero dovuto aiutare a trasportare le dieci nasse nel rifugio da loro prescelto, a preparare il materiale e, appena pronti, ad operare.

La missione, prima e ultima del suo genere, aveva richiesto un allenamento lungo e faticoso. Oltre alla parte subacquea, era stata particolarmente curata la parte natatoria. Pavone era un normotipo, ma particolarmente adatto al nuoto e a quello subacqueo in particolare, con una tecnica di pinneggiamento che gli consentiva prestazioni eccezionali. (Nel dopoguerra, a Bologna, istituì la scuola del nuoto pinnato in piscina. Inventò la monopinna e le bombole in assetto anteriore. Organizzò nel 1959 la prima manifestazione di nuoto pinnato in piscina e nel 1980, sempre a Bologna, il secondo campionato mondiale di questa disciplina. Con la sua formidabile squadra maschile e femminile, alla quale aveva trasmesso le sue tecniche di nuoto e i suoi metodi di allenamento, vinse il campionato mondiale in Mar Nero, battendo lo squadrone dell’Unione Sovietica). A Valdagno e a Venezia era riuscito a trovare la pinneggiata che lo aveva reso il gamma più veloce e resistente del Gruppo (nudo e senza sacche a rimorchio, aveva percorso 5 chilometri in un’ora e mezzo; in assetto gamma e con dieci nasse per il peso complessivo di 500 chilogrammi, aveva nuotato fino alla velocità di 1,500 km/ora).

Una notizia che cambiò in parte e, dal suo punto di vista in meglio, il piano dell’azione, gli fu portata poco prima che partisse da due gamma del suo Gruppo. Il suo Comandante, dal Muggiano ove alloggiava con Ferraro dove avevano sede gli uffici di Borghese e il Comando dei Mezzi d’Assalto di Arillo, gli comunicava che non si aspettasse le segnalazioni da terra, perché i tre gamma lo avrebbero aspettato nei serbatoi di nafta abbattuti dalle bombe aeree, serbatoi che si trovavano a poca distanza dalla Torre Marzocco. Pavone avrebbe dovuto affondare le dieci nasse vicino all’entrata nord del porto, che rimaneva costantemente chiusa, legarle in rete e andare successivamente ad avvertire i tre compagni, affinché lo aiutassero a trasportarle in quel nascondiglio.

Dopo quella comunicazione, Pavone partì più contento e fiducioso, perché non aveva mai gradito le segnalazioni luminose, costituendo esse un pericolo di avvistamento e localizzazione. Fracassini portò lo S.M.A. in velocità sottocosta, come nella precedente missione, fino alla linea immaginaria di separazione delle forze tedesche da quelle alleate, poi deviò verso il largo, riducendo il numero di giri dei due motori. Sulla costa si distingueva con facilità la zona già occupata dagli angloamericani, illuminata come se fosse già in tempo di pace e forse ancora di più, per via dello sciabolare di alcune fotoelettriche. Pavone fu particolarmente colpito da quella visione, testimonianza di una strapotenza del nemico da attaccare, tanto da renderlo incurante della vicinanza di un’armata tedesca, anche se in via di dissolvimento e senza più uno straccio di aereo in grado di colpire i suoi porti. Illuminata la città di Livorno e il porto. Fari e fotoelettriche, a brevi distanze gli uni dalle altre, illuminavano a giorno il mare antistante, spesso con rapide sciabolate di luce abbagliante. Fu colpito da quella visione, che però non lo impressionò più di tanto. Fracassini pareva indifferente allo spettacolo, che per lui era analogo a quello della volta precedente e niente più e questo confortava Pavone, che pensava che se erano riusciti gli altri non c’era motivo perché non riuscisse anche lui.

Un subacqueo del corpo scelto ‘gamma’ in tenuta operativa

Fracassini continuò a navigare lentamente verso Sud ancora per un poco, poi comunicò a Pavone che, secondo la sua stima, avrebbe dovuto trovarsi a circa un miglio e mezzo o forse due al massimo dalla costa e pertanto non voleva avvicinarsi di più, temendo di potere essere avvistato, data anche la presenza di tutti quei fari a mare. Questi fari non davano la possibilità di vedere la costa e di verificare la distanza. Pavone pregò di essere avvicinato ancora di più.
Dalla tuta estrasse l’orologio e guardò l’ora: erano le 02.10. A quell’ora avrebbe dovuto essere già arrivato sulla riva e invece continuava a non scorgerla. Inoltre, dalle luci dei fari, quello in cui si trovava non gli pareva che fosse il punto al traverso dell’entrata nord previsto nel piano.
Pavone era in acqua da cinque ore e per cinque lunghe ore aveva pinneggiato con tutte le sue forze. Si sentiva stanco, ma non poteva permettersi una sosta per riposare. Si era creata in lui la preoccupazione di vedere la costa e di conoscere con precisione il punto in cui si trovava.

Riprese la marcia, fino a che l’acqua divenne così bassa che le nasse non galleggiavano più. Impensierito da questo imprevisto, pensò di essersi imbattuto in una secca isolata e cercò, sempre con le nasse a rimorchio, di trovarne una estremità, ma quel banco pareva non avere fine.
Le nasse ormai erano arenate, non avendo più lo spazio d’acqua sufficiente per il galleggiamento. Pavone, non potendo abbandonare le nasse in quanto l’oscurità avrebbe reso difficile il loro ritrovamento, le staccò una per una e le trasportò in avanti, percorrendo dieci metri alla volta per non smarrirle. Si rimise le pinne e riprese a pinneggiare furiosamente per poter raggiungere la costa al più presto.
Dopo qualche centinaio di metri, Pavone si imbattè in una seconda secca e, forte della spiacevole esperienza precedente, dovette di nuovo togliersi le pinne, staccare le nasse e trasportarle una per una al di là di quel banco, riallacciarle, rimettersi le pinne e ricominciare a pinneggiare.

Le secche e l’acqua alta si susseguirono alternativamente, obbligando il gamma ad un lavoro estenuante, mentre, purtroppo, cominciavano a comparire nel cielo i chiarori dell’alba. Alla soffusa luce di questi chiarori, Pavone scorse finalmente la costa ad un centinaio di metri da lui.

Una rara ripresa subacquea di pinnatisti negli anni Quaranta

Non riusciva ancora a distinguere in quale punto si trovasse; ma ben presto, avvicinandosi alla terraferma, trascinandosi le nasse con l’acqua agli stinchi, capì che era atterrato più a Nord dell’imboccatura del porto, avendo visto profilarsi nella semioscurità, sulla sua dritta, la torre Marzocco.
Il luogo ove era approdato era sabbioso, come lasciavano prevedere le secche antistanti. Gli unici nascondigli possibili erano fra i massi di una scogliera e là Pavone occultò le dieci nasse, non avendo più il tempo e la forza di scavare delle buche nella sabbia. Ma a terra era arrivato, come si era prefisso.

Il nostro indossò un impermeabile, che si era portato dietro immagazzinandolo entro la prima nassa, estrasse dalla medesima nassa un pettine e si ravvivò i capelli arruffati dall’acqua.
L’impermeabile era uno di quelli costruiti con la stoffa dei palloni frenanti, uguale agli altri impermeabili realizzati dalla X Flottiglia M.A.S. per tutti gli operatori dei Mezzi d’Assalto di superficie in navigazione. Poteva sembrare per gli inglesi un impermeabile militare, come in effetti lo era.
Il punto ove era atterrato corrispondeva con sufficiente precisione a quello che gli avevano indicato a La Castagna Wolner e Maestrale (e questo, dopo cinque ore di nuoto pinnato con dieci nasse a rimorchio, di notte e con le sole luci del porto come riferimento, è stato un bel record!), per cui Pavone decise di andare perpendicolarmente alla linea di costa per trovare i serbatoi designati come ricovero dei tre gamma che lo avevano preceduto. Ma su quel percorso si trovava il casotto del faro a mare, alla distanza da lui di circa cento metri, per cui deviò verso sinistra, all’interno, per passare distante da quel piccolo edificio, che poteva nascondere qualche guardiano o sentinella armata. Camminando con prudenza, Pavone si accorse che per terra era disteso un filo spinato e gli sorse il dubbio se quella spiaggia fosse stata minata o meno. Deciso per il no, proseguì dopo avere scostato detto filo spinato con un arbusto, per evitare il pericolo che il vestito di gomma potesse strapparsi.

Dopo una ventina di metri, il nostro gamma giunse di fronte ad un lunghissimo sbarramento di filo spinato infisso entro un fosso, terminante in alto con una croce sormontata da spire, sempre di filo spinato. Alla fine del terreno che aveva già attraversato scorse un cartello sul quale lesse ‘MINES’. Non sapendo se le mine fossero state collocate prima o dopo quel cartello, Pavone, sempre ottimista, decise per il ‘prima’ e stabilì che gli era andata proprio bene, a meno che quel cartello fosse solo uno spauracchio.
Per raggiungere i serbatoi avrebbe dovuto, quindi, ritornare sui suoi passi, verso dritta, ma in quella direzione c’era il casotto del faro, per cui decise di scavalcare il reticolato a costo di strapparsi il vestito di gomma. Adagio adagio, con estrema prudenza, dopo essere stato più volte sul punto di perdere l’equilibrio, o di cadere, o di rimanere malamente appeso, egli si trovò incolume dall’altra parte dello sbarramento.

Ormai era giorno fatto e la visibilità era ottima. Pavone attraversò alcuni binari, vide alcuni soldati neri americani isolati e giunse alla meta del suo viaggio: i serbatoi.
Entrò in ognuna di quelle grandi cisterne e chiamò sommessamente i suoi tre compagni. Naturalmente (naturalmente per noi, ora che conosciamo i precedenti) nessuno gli rispose. Di loro non c’era la benché minima traccia. Sentiva che era all’estremo delle forze, ma girò ancora qua e là tra quei serbatoi per continuare la ricerca. Un grande scoramento lo afferrò: era bagnato fradicio, aveva freddo (si era in dicembre), era esausto dopo tutti quegli sforzi che aveva dovuto sostenere, si trovava in una zona militare e, da un momento all’altro, qualcuno avrebbe potuto avvedersi della sua presenza. Ma la sua intenzione era sempre quella di volere tentare da solo un attacco alla sera stessa, per cui aveva l’obbligo di riposarsi per tornare alla normalità del suo stato fisico e psichico. Pensava ormai di dovere operare da solo, senza l’aiuto degli altri tre gamma. Nel suo cervello si stava già sviluppando il nuovo piano. Non sarebbe stato difficile raggiungere le nasse via mare, estrarne i bauletti e tentare di attaccare due, tre o quattro navi, quanto il tempo e le forze glielo avessero permesso. Ma in quelle condizioni non sarebbe riuscito a fare nulla di quanto stava organizzando nella sua mente. Doveva trovare la maniera di ristorarsi, di riposarsi, di togliersi da quel posto in cui si era andato inconsapevolmente a rinchiudere. Aveva con sé il denaro (le classiche 50.000 lire). Con quell’impermeabile addosso non avrebbe potuto destare sospetti. Avrebbe potuto cercare aiuto presso qualche osteria fuori mano.

Luigi Ferraro (a destra) aiutato da un amico nell’indossare la muta dei Gamma

Pavone tornò a darsi una pettinata ai capelli, si riassettò l’impermeabile e uscì allo scoperto con tutto il suo collaudato sangue freddo. Alcuni militari, bianchi e neri, lo videro, ma lo guardarono solo distrattamente, senza manifestare segni di meraviglia o di allarme. Questo fatto lo incoraggiò a proseguire lungo la strada che costeggia il canale dei Navicelli. Fischiettava, sbattendo un bastoncino sulla gamba destra. Salutò con una mano i soldati, che gremivano alcuni autocarri che passavano lungo la medesima strada. Tutto pareva che andasse per il meglio, ma Pavone non aveva ancora fatto i conti con McDonald e con le sue astuzie di cacciatore d’uomini.
Alla fine di quella strada c’era una garitta e, accanto alla garitta, c’era una sentinella. Pavone si fermò per qualche istante per vedere se, oltre ai soldati già visti, sarebbe passato anche qualche civile. Poco dopo, vide un uomo in borghese che passava accanto a quel soldato senza fermarsi e senza rivolgergli la parola, per cui si decise a muoversi anche lui nella stessa maniera.

Sempre fischiettando, giunse a pochi metri dalla garitta, ma, alla distanza di tre metri, la sentinella gli puntò contro il fucile con la baionetta inastata, urlando: ‘saboteur!’, con gli occhi puntati sulle scarpette di gomma, che si scorgevano spuntare sotto la tuta da meccanico e da sotto l’impermeabile.
Quel soldato era terrorizzato, tremava e urlava a richiamare altri per non trovarsi solo con il ‘sabotatore’. Poi gli si scagliò contro e lo spinse entro la garitta, ove cercò di colpirlo al basso ventre con il calcio del fucile e, mentre gli puntava l’arma sul petto, riuscì a telefonare alla Polizia Militare. Dopo pochi minuti la M.P. arrivò e lo tradusse immediatamente con una jeep in una caserma, dove molti militari alleati lo circondarono curiosi.

Arrivarono McDonald e il Com.te Dyson, che Pavone naturalmente non conosceva. Ma, arrivati a questo punto, si preferisce riportare quanto ha riferito nel suo rapporto a Borghese a guerra finita.
‘…mi chiesero chi fossi; mi dissero che mi aspettavano da tempo e mi chiesero dove erano i sacchi. Negai di essere giunto con dei sacchi ed inventai la storia che, essendo indisposto, non avevo potuto fare quella missione troppo faticosa e che mi ero dovuto accontentare di farne una normale. Ma, essendo stato lasciato troppo al largo, per arrivare a terra ero stato costretto ad affondare l’esplosivo e l’autorespiratore.

Mi condussero al porto per indicare il punto in cui ero approdato; indicai tutt’altro posto che non il vero. Erano convinti che con me vi fosse dell’altra gente ed io lasciai che lo pensassero.
Mi portarono in una villetta e feci colazione con loro; raccontai la mia vita, che dattilografarono e mi convinsi che era molto più conveniente fingere di assecondare le loro domande, che mostrarsi ostili, non per il trattamento che poteva derivarne, ma perché rifiutare una risposta significava inasprirli e metterli in curiosità; mentre, restituendo le loro ipocrisie, mi toglievo d’impaccio e mi riusciva più facile nascondere una notizia che poteva interessare. Mi stupì molto sapere che i tre che mi avevano preceduto erano stati catturati prima di entrare in porto; quindi, non avevano operato.
Si meravigliarono molto di ciò che avevo fatto sia in acqua che in terra. Si congratularono e mi confessarono che erano stati in un vero orgasmo per il mio arrivo e che, se fossi stato più fortunato, avrei potuto recare un danno enorme alla Marina angloamericana.
Dopo essere stato interrogato dal Com.te Forza, fui avviato a Roma (Campo di concentramento di Cinecittà), e di là ad Afragola, quindi in Africa’.

Un sub durante il periodo bellico

Secondo noi da qui parte l’epopea del nuoto pinnato italiano e bolognese. In un prossimo numero parleremo di come Pavone fece nascere, insieme a Ferraro, il pinnato in Italia e di come portò Bologna in cima al mondo nel nuoto agonistico con pinne. Tutto il movimento natatorio della nostra città deve moltissimo a Franco Pavone: sono rarissimi i casi di dirigenti, allenatori e atleti che non siano passati dalla Sub Bologna del mitico Franco.

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Category: Pesca in Apnea

Commenti (1)

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  1. Alessandro Zerbini ha detto:

    Brividi da “storia” vera

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