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C’era una volta la pesca subacquea

| 16 Marzo 2008 | 0 Comments

Prefazione

Foto A. Balbi

Il selvaggio e incontrollato proliferare delle AMP che sta interessando la quasi totalità delle coste e delle isole più belle d’Italia, ostacola pesantemente la pratica del nostro amato sport, fino a renderne quanto mai dubbioso il futuro prossimo.
E’ quindi doveroso cercare di capire come si è evoluta e, soprattutto, involuta l’immagine del pescatore subacqueo, affrontando le ragioni che l’hanno portato a divenire il capro espiatorio per eccellenza di tutti i problemi della sua seconda casa: il mare.

Prima d’affrontare l’analisi delle ragioni, vere o presunte, della nostra ghettizzazione, è però opportuno effettuare un riassunto cronologico della nostra storia, riassunto che servirà a evidenziare dove e come ha avuto inizio la parabola ascendente del nostro sport, quando il vento è cambiato e come siamo arrivati alla situazione odierna.

Solo pochi ma esplicativi cenni storici, accompagnati dal relativo grafico.

1) 1910 ‘ Alex Wickhamm è uno dei primi pescatori in apnea
2) 1930 ‘ Canaldo è il primo pescasub europeo
3) 1932 ‘ Luigi Miraglia è il primo pescasub italiano
4) 1948 ‘ Il mercato offre le prime attrezzature e monografie
5) 1949 ‘ Primo Campionato Italiano di Pescasub alla Gorgona
6) 1954 ‘ ‘Sesto Continente’ è Premio Speciale alla Mostra del Cinema di Venezia
7) 1956 ‘ Il ‘Mondo del Silenzio’ è Primo Premio al Festival di Cannes
8) 1957 ‘ Primo Campionato del Mondo di Pescasub a Lussinpiccolo
9) 1961 ‘ Viene fondato il WWF
10) 1967 ‘ Il mondiale di Cayo Avalos suscita riprovazione
11) 1970 ‘ Si redigono regolamenti più restrittivi e si vieta l’uso dell’autorespiratore
12) 1972 ‘ Hans Haas firma il manifesto contro la pescasub
13) 1974 ‘ Jacques Cousteau lascia la presidenza della CMAS

Forti, ora, di idee più chiare, possiamo avviare la riflessione e capire da chi vengono e come nascono le accuse che ci vengono mosse. Può sembrare superfluo partire da così lontano, ma a ben guardare, le argomentazioni a nostro sfavore sono sempre le stesse, riproposte con cadenza ciclica ogni qual volta la demagogia ambientalista ha bisogno di sfogarsi.

Gli inutili sensi di colpa

E’ innegabile che buona parte della nostra immagine attuale sia il risultato dei pesanti sensi di colpa che, a cavallo degli anni settanta, hanno colpito la comunità dei pescatori in apnea. Avremmo potuto sopportare le critiche dall’esterno, ma gli strali interni no, e infatti questi hanno fatto più danno e molto più a lungo di quanto si potesse immaginare.
Salta subito all’occhio come la presa di distanza da parte dei nostri stessi ambasciatori presso il mondo accademico e dei mass media, nonchè le loro successive accuse d’essere i principali responsabili del depauperamento degli stock ittici, ci abbiano causato un danno d’immagine fortissimo e non solo nell’immediato, visto che questa ingiusta accusa ci rimase poi incollata addosso e permane tutt’oggi, a più di 30 anni dalle prime avvisaglie, inalterata se non addirittura acuita.

Foto A. Balbi

A ben guardare, oggi siamo bravissimi nell’agire come avremmo dovuto fare 40 anni fa. Oggi siamo perfettamente coscienti di come il nostro impatto, paragonato a quello della pesca professionale, sia inesistente; 40 anni fa, nonostante la stessa convinzione, abbiamo preferito castrarci pur di sopire quegli inutili sensi di colpa che le mattanze professionali e il crescente inquinamento industriale ci avevano fatto sorgere. Abbiamo sbagliato allora a tentare di punirci per colpe non nostre, come sbagliamo ancora oggi nell’auto assolverci sempre e comunque e nel giustificare qualsiasi nostra azione al grido di ‘tanto c’è chi fa peggio’.

Un’autocritica, questa, necessaria per sottolineare come i nostri errori siano sempre i più gravi, per quelli del passato nulla possiamo, ma per quelli del presente dobbiamo assolutamente rimediare se non vogliamo scavarci la fossa con le nostre mani.

La gran parte dei pregiudizi verso la pesca in apnea si fondano sull’attacco portatoci direttamente dai nostri padri fondatori ma che si è evoluto e articolato con il proliferare dell’ambientalismo militante. Se però la critica di Haas e Cousteu è figlia degli anni ’70, quali sono le ragioni che nel nuovo millennio, vengono addotte per motivare la nostra sistematica epurazione? Quali i motivi per cui ci si accanisce contro una disciplina che opera su di una limitata fascia della piattaforma continentale, si pratica con attrezzature rudimentali, opera con la massima selettività e il minor impatto sulle riserve ittiche?

Le ragioni dell’ostilità

Il mondo della pesca professionale, gli ambientalisti, alcuni media, e la parte di opinione pubblica plagiata da questi soggetti, hanno una visione profondamente contraddittoria secondo la quale chi pesca saltuariamente, con attrezzature poco efficienti e solo per il proprio, fa più danno di chi, pescando per mestiere, compie mattanze a fini di lucro, che non lasciano scampo, avvalendosi spesso degli ultimi ritrovati della tecnologia.

Una contraddizione che, però, appare non essere evidente ai più; d’altra parte la pesca in apnea è sempre sotto accusa, mentre difficilmente lo sono le altre metodologie di prelievo, per ragioni di ordine culturale, emozionale, politico e organizzativo.

La cultura

Foto A. Balbi

La nostra società basa il proprio sostentamento esclusivamente sui derivati di agricoltura e allevamento, in quest’ottica la caccia è ormai una pratica inutile, dalla mera funzione ludico/ricreativa. A ciò aggiungiamo la limitata visione secondo cui il cacciatore, in senso lato, incarna lo stereotipo del bracconiere, del razziatore, del ‘ladro’ che prende per sé, sottraendolo al patrimonio comune.

Per uno strano istinto masochista il pescatore professionista con il suo prelievo massivo compie un’azione meritoria nello sfruttare intensivamente e personalisticamente una risorsa di tutti; il fatto che venda il pescato dà l’impressione che si adoperi per la comunità. Di contro il pescatore in apnea, con il suo prelievo individuale, è un egoista che alla società non dà nulla e che agisce solo per proprio tornaconto.
La pesca subacquea, come la caccia terrestre, non fa altro che mantenere in vita un modello sociale scomodo che promulga ancora l’istinto predatorio nonostante l’evoluzione lo abbia reso ormai superfluo; non solo, và drasticamente contro l’idillio ambientalista per cui ogni intervento dell’uomo è un’ingerenza dalle pesantissime e negative ripercussioni.

La politica

Le ragioni politiche dovrebbero essere molto più immediate. Un sistema democratico fa sì che le leggi siano emanazione della volontà della maggioranza e, in quest’ottica, la lobby dei pescatori professionisti è molto più numerosa e fortemente sindacalizzata. Noi come subacquei siamo una nullità a confronto, ma non è sul numero, o almeno non solo, che siamo perdenti, quanto sulla assente politicizzazione della categoria.
Il potere sindacale è quello che fa la differenza, la sua capacità di ricatto che piega la maggioranza alle richieste di pochi. Ne è prova il fatto che non si è ancora riusciti a debellare la pesca a strascico, che le spadare, dopo un periodo di bando fittizio, stanno per ritornare legali; lo dimostrano le deroghe a Italia e Francia in merito alle disposizioni europee sulla pesca stabilite dal ‘dossier Mediterraneo’, e non ultima, l’estensione del fermo biologico alla pesca sportiva in Sicilia e Sardegna nella stagione appena trascorsa.

Foto A. Balbi

Riguardo il fermo della pesca sportiva, bisogna capire il perché di tanto astio. Sono i professionisti ad aver posto il veto ‘o tutti o niente’, e il legislatore locale, sotto ricatto e in barba alle direttive europee, non ha potuto che dar loro ascolto. Tutta la pesca sportiva (maggiormente quella di superficie) costituisce un competitor sia perché incide sulle riserve ittiche comuni sia perché sottrae una discreta porzione di mercato. Sappiamo bene che l’entità dei prelievi non è paragonabile, ma alcune tecniche (traina, pesca in apnea) producono pescato di grande qualità, soprattutto per specie, assortimento e taglia. Fino a questo punto nulla di strano, se però pensiamo alla filosofia (illegale) per cui vendere il pescato per rifarsi delle spese è un’azione necessaria capiamo perché il gigante ce l’ha tanto col topolino, e ancora una volta siamo noi a darci la zappa sui piedi.

Dobbiamo anche riconoscere che le critiche interne, passate e presenti, per quanto legittime (se sincere e non fatte solo per proprio tornaconto d’immagine), ci danneggiano comunque, in più l’azione diretta di coloro che hanno avuto gloria e fama con la pesca subacquea, salvo poi abiurare per riciclarsi come politicanti rischia di tagliarci le gambe.

L’organizzazione

Le ragioni organizzative invece sono da ricercare nel modello di sviluppo delle aree marine protette. All’interno di queste zone si cerca di incentivare l’immersione con autorespiratore, la fotosub, tutte discipline di massa e che richiedono attrezzature costose obbligando molti appassionati ad abbattere i costi noleggiando in loco tutto il necessario. I diving non vedono di buon occhio chi sottrae spettacolo ai clienti allontanando le specie stanziali, trascurando che è la stessa pressione umana effettuata con immersioni continue, anche se non a scopo venatorio, a far allontanare ogni significativa forma di vita.

Un’area marina protetta serve per sfruttare a fini turistici un territorio, per creare delle riserve di pesca ad utilizzo esclusivo dei locali oltre ad un notevole numero di posti di lavoro al limite del parassitismo. E’ curioso notare come la maggior parte delle riserve si trovi in luoghi di grande interesse turistico, così come desta sempre sorpresa osservare come le zone a tutela integrale (Zone A) siano proporzionalmente insignificanti e assai distanti dalle comunità che ricavano i maggiori benefici dalla presenza del parco, dato che il divieto, spesso persino di navigazione, mal si concilia con qualsiasi attività umana.

Foto A. Balbi

Qualcosa sta cambiando

Nonostante la situazione sembri quasi catastrofica dobbiamo necessariamente fare qualche precisazione.

Non è vero che l’italiano medio sia contrario alla pesca come alla caccia, semplicemente poco gli importa; a riprova di ciò vale la pena ricordare come ben due referendum sulla caccia non abbiano neppure sfiorato il quorum richiesto. Il vero problema italiano è che argomenti così delicati come la tutela dell’ambiente sono imprudentemente lasciati nelle mani delle rumorose minoranze ambientaliste che sanno solo atteggiarsi a paladini della biodiversità e diffondere un ingiustificato allarmismo ambientale.
E’ importante sottolineare come il concetto di AMP quale riserva totale (utopia ambientalista) stoni con la visione di macchina da soldi che è propria di piccoli e grandi centri turistici. Il caso dell’AMP de La Maddalena è l’emblema di quanto alle comunità locali stia più a cuore la gestione dei patrimoni, degli immensi capitali a fondo perduto che i parchi portano in dote, dei proventi del turismo esclusivo, piuttosto che la difesa degli ecosistemi e della loro ricchezza.

Foto A. Balbi

Per buona parte dei media è più vendibile il Carlo Gasparri convertito alla fotosub, l’Arturo Santoro che rinnega pubblicamente la pescasub o il Maiorca ambasciatore del WWF e affossatore della pesca subacquea (ci scuserà se la storia delle interviste tagliate ad arte per noi non è del tutto credibile), piuttosto che un pacato Azzali che la difende a spada tratta. In questo modo sembra che l’opinione pubblica sia assolutamente in sintonia con la demagogia ambientalista, in realtà è solo una proiezione falsata, di cui nella vita quotidiana è difficile trovare dei riscontri. Gli episodi di intolleranza nei nostri confronti, da parte dell’uomo della strada, sono così rari da diventare più facilmente argomento di barzelletta che di vera riflessione sociale.
Però è pur vero che chi detiene il potere politico è spesso poco addentro alla materia, quando non dedito esclusivamente agli interessi della propria parte politica. In questo contesto si tratterebbe di affrontare una lotta impari, per questo certi cambiamenti si sono resi necessari e la nostra federazione ha cominciato già da tempo a muovere qualche passo, piccolo ma importante.

Una cosa apparentemente formale è stata il cambiamento di nome da ‘pesca subacquea’ a ‘pesca in apnea’. Una cosa banale per noi che sappiamo bene di che si parla, ma una precisazione sostanziale nei confronti di chi ha sempre giocato sull’equivoco che la nostra disciplina venga praticata con le bombole; c’è ancora chi lo fa, ma si tratta di bracconaggio punito dalla nostra legislazione.
Molto importante è stato anche il processo di riforma dei regolamenti di gara, con le limitazioni di specie, i bonus per le varietà, nuove regole volte a premiare la tecnica più che la quantità. Probabilmente si è perso in spettacolarità e non si può definire un punto di arrivo ma certo è la direzione giusta da seguire.

Sono stati aperti degli importanti e promettenti canali di confronto con il Ministero delle Politiche Agricole, con i vertici delle Capitanerie di Porto, con gli enti gestori di alcune AMP al fine di stendere dei regolamenti etici che permettano in un futuro, speriamo prossimo, il nostro ingresso nelle zone C. Non ultime le aziende produttrici di attrezzature, che fino ad oggi si erano piuttosto defilate, hanno costituito un fronte compatto che ha preso atto dell’ingente danno economico che l’abolizione del nostro sport comporterebbe, un danno che già inizia a farsi sentire a più livelli e in diverse direzioni.

Un grazie lo dobbiamo anche a Umberto Pelizzari, che è riuscito a ritagliare una finestra sulla nostra disciplina in un programma nazionale con un discreto bacino di utenza. A differenza di tanti campioni del passato che hanno rinnegato tutto quello che la pesca in apnea ha rappresentato per loro, Umberto non ha mai smesso di dichiararsi fieramente un pescatore. A lui, come a tutti coloro che la pensano allo stesso modo, non possiamo che fare i nostri complimenti.

Guardando il futuro

Foto A. Balbi

Ma ancora tante cose devono cambiare, perché il nostro futuro non è certo roseo.
Siamo pochi, sbandati, egoisti e dobbiamo affrontare avversari molto più numerosi e ben organizzati, abbiamo poche speranze, e il sapere di essere nel giusto ci servirà a poco. Le carte più importanti che ci restano da giocare sono l’associazionismo e l’allontanamento di coloro con cui non abbiamo nulla a che spartire, bracconieri in primis.

Non è vero che in seno alla federazione non contiamo nulla; per quanti siamo (1400 tesserati circa) pesiamo moltissimo, ma potremmo essere molto più influenti se la gran parte della massa sommersa dei pescatori aderisse alla FIPSAS. La possiamo criticare e bistrattare quanto vogliamo, ma è il nostro unico vero rappresentante che diventa tanto più autorevole quanti più iscritti rappresenta e tutela.
Con la tessera in tasca anche le lamentele forse non sarebbero parole gettate al vento, tutta la nostra storia e il nostro patrimonio di conoscenze è nelle nostre mani, e non solo abbiamo il dovere più che il diritto, di preservarlo, ma non abbiamo altro mezzo se non quello di unirci e combattere la nostra battaglia compatti, contro chi, per ignoranza, ci vorrebbe annientare.


Revisione e impaginazione di Emanuele Cinelli

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